Dopo le sanzioni cinesi su Micron, colosso tecnologico a stelle e strisce, gli Stati Uniti hanno deciso di rispondere studiando contromosse per colpire la possibilità di Pechino di acquistare dai rivali di oltre Pacifico i chip che servono ad abilitare gli algoritmi di intelligenza artificiale.
Ormai la “securenomics“, per usare la fortunata espressione coniata dalla segretaria “ombra” del Tesoro britannica Rachel Reeves, del Partito Laburista, è realtà. E il paradigma del primato della sicurezza sul progresso di scambi economici e commercio è diventato trasversalmente accettato in Occidente dopo la pandemia e la crisi energetica. Joe Biden, che sulla Cina è partito dalla linea di Donald Trump irrigidendola ulteriormente in termini di ricorso alle sanzioni commerciali, è disposto a tutto per fermare l’ascesa tecnologica del rivale numero uno di Washington. Anche andare in controtendenza rispetto ai timori dei Ceo e dei top manager del mondo tech.
Il Wall Street Journal ha ricordato che già nei primi giorni di luglio il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti guidato dalla fedelissima di Biden Gina Raimondo potrebbe intervenire. Esercitando una sorta di “golden power” sugli attori interni prescrivendo agli attori cinesi che decidessero di acquistare chip per l’Ia a stelle e strisce di ottenere specifiche licenze. Ciò che Washington vuole evitare è che la Cina possa aver accesso a tecnologie dual use o possa fare retroingegneria su prodotti di punta che possono abilitare la nuova supremazia tecnologica americana.
Secondo DigiTimes la mossa bloccherebbe la possibilità a “Nvidia e ad altri produttori di chip di spedire determinati chip AI in Cina, in particolare l’A800 di Nvidia”. I membri degli apparati federali “vedono sempre più l’Ia come un problema di sicurezza nazionale, poiché può essere fusa con le armi per dare ai rivali degli Usa un vantaggio sul campo di battaglia. Gli strumenti di intelligenza artificiale possono anche essere utilizzati per produrre armi chimiche o codici informatici dannosi”.
Jensen Huang, amministratore delegato di Nvidia, giusto un mese fa parlando col Financial Times aveva ritenuto pericolosa la prospettiva di una guerra commerciale amplificata tra Usa e Cina, dato che a suo avviso il rischio per entrambe le potenze era quello di sopprimere mutualmente ogni prospettiva di sviluppo delle tecnologie di frontiera. Al contempo Huang ha sottolineato che l’accesso al mercato cinese è per i produttori americani di tecnologie critiche fondamentali anche per dare retroterra al Chips Act da 52 miliardi di dollari con cui Biden vuole sviluppare una catena del valore il più possibile internalizzata e sicura per questo settore fondamentale.
La presa di posizione di Huang è quella di un importante executive che procede, legittimamente, a elencare le priorità commerciali e industriali della sua azienda, decisamente sugli scudi per gli avanzamenti sull’Ia generativa che i suoi prodotti hanno comportato negli ultimi tempi. Ma cozza, al contempo, con la volontà di contrastare a tutto campo Pechino che è prioritaria negli apparati securitari Usa, sia nel Partito Democratico che nel Partito Repubblicano, il cui deputato Mike Gallagher presiede, con toni da “falco”, il comitato della Camera dei rappresentanti sul Partito comunista cinese che punta il faro sui furti tecnologici cinesi e le loro conseguenze.
Non tutti, a Washington, sono però convinti che la linea del braccio di ferro sia quella necessariamente vincente. Janet Yellen, segretaria al Tesoro e guida del dipartimento che più attentamente ha pianificato in passato le sanzioni, parlando alla Msnbc ha dichiarato di voler presto andare in Cina e “riprendere contatto” con le autorità politico-economiche cinesi. Mentre sul fronte dei funzionari di medio livello, Asia Times ha notato che la volontà sanzionistica di Washington appare incoerente con la spinta che su altri fronti c’è per un rinnovato e franco dialogo commerciale tra Washington e Pechino. Le relazioni Usa-Cina, insomma, sono un prisma. In cui la tecnologia passa, però, senza scomporsi come asset chiave della rivalità: su tanti temi si potrà negoziare, difficilmente sui determinanti critici dello sviluppo della potenza economica, militare e geopolitica. E questo dato di fatto condizionerà, negli anni a venire, i rapporti Usa-Pechino.