Può un telescopio spaziale essere un simbolo di omofobia? E soprattutto, nel caso lo fosse può esserlo diventato venti anni dopo la sua realizzazione e intitolazione? Nell’America del politicamente corretto imperante e degli eccessi può davvero aprirsi un dibattito del genere. Vittima involontaria il James Webb Space Telescope, il successore designato dello storico telescopio Hubble che è pronto ad essere lanciato il 31 ottobre prossimo per permettere alla Nasa un rafforzamento della sua capacità di esplorazione dello spazio profondo.

Costato oltre 8 miliardi di dollari nel corso di un programma che complessivamente è andato oltre i 10 miliardi, sviluppato nell’arco di due decenni con il supporto dell’Agenzia Spaziale Europea, dotato di uno specchio dal diametro di 6,5 metri, molto più grande di quello di Hubble da 2,4 metri, e di sensori di ultima generazione il Jwst è un vero e proprio capolavoro di ingegneria e scienza. Ma secondo molti ha un vulnus: è intitolato a James Webb, secondo amministratore della Nasa, nominato da John Fitzgerald Kennedy alla guida dell’agenzia nel 1961 e in carica fino al 1969 negli impetuosi anni della corsa alla Luna. Ex maggiore dei Marines, esponente delle burocrazie strategiche americane, con alle spalle una carriera nell’ufficio budget del Tesoro, consigliere del Segretario di Stato Dean Acheson nei primi Anni Cinquanta Webb fu regista dei programmi Apollo, Pioneer e Mariner durante le presidenze Kennedy e Johnson. Ma a detta dei suoi critici ha avuto nel corso della sua vita un grave problema: l’omofobia.

Da diversi mesi quattro prominenti scienziati che hanno lavorato in importanti programmi astronomici e astrofisici portano avanti una battaglia contro Webb chiedendo che il telescopio sia rinominato per non offendere la comunità Lgbt: Chanda Prescod-Weinstein, Sarah Tuttle, Lucianne Walkowicz e Brian Nord sul prestigioso Scientific American a marzo hanno aperto il dibattito  che è stato preso seriamente dalla comunità scientifica. Oltre 1.500 fisici, matematici, astronomi e studiosi hanno sottoscritto una petizione che mira alla re-intitolazione del telescopio; Webb sarebbe stato complice della lavander scare, la “caccia alle streghe contro la comunità gay americana” che avrebbe portato alla “rimozione di migliaia di dipendenti” dalle amministrazioni americane.

Cape Canaveral vuole vederci chiaro: non ha potuto ignorare le pressioni provenienti dall’opinione scientifica americana e ha incaricato Brian Odom, storico dell’agenzia, di indagare negli archivi per capire se Webb ha ordinato negli otto anni alla guida della Nasa delle epurazioni anti-Lgbt. Una presa di posizione pilatesca, ma fondamentale per prender tempo di fronte al dibattito crescente che si è scatenato. Certo, è ironico che la Nasa debba indagare per capire meglio cosa ci sia ancora da scoprire sul conto dell’uomo che l’ha diretta nel periodo più impetuoso della sua storia, contribuendo a organizzare 75 missioni e a porre le basi per l’allunaggio del 1969. Ma di fronte al politicamente corretto ogni argine cede e l’accusa di omofobia diventa uno stigma postumo per chi ha scritto la storia della corsa allo spazio.

L’intitolazione a Webb, del resto, risale al 2002 ed è sintomatico del clima del dibattito americano dell’era presente il fatto che la polemica sia arrivata allo scoperto quasi vent’anni e tre amministrazioni dopo il varo del programma. La questione non è certamente solo di carattere mediatico: il Jwst deve andare in orbita entro un paio di mesi e un’eventuale reintitolazione comporterebbe anche un aggiornamento di programmi, software, strumenti di calcolo oggi orientati sul nome odierno dello strumento. E soprattutto metterebbe eccessivamente nel ciclone dei media e dell’opinione pubblica in una fase in cui la sua delicata condizione richiede sicurezza e basso profilo: il Jwst sarà lanciato da Kourou, base nella Guyana Francese, e dovrà essere portato fin lì in nave nel corso di una missione su cui la Nasa vuole mantenere il massimo riserbo. Troppo costoso il telescopio per permettersi il rischio di sabotaggi, troppo preziosi determinati materiali presenti nella sua struttura (oro in primis) per esporlo al rischio furti, troppo il ritardo accumulato su un lancio inizialmente previsto per il 2007 per subire nuovi contrattempi.

La questione del nome complica il tutto e riporta la Nasa nell’occhio del ciclone: nel 2017 e 2018 la nomina di Jim Bridesteine, deputato repubblicano dell’Oklahoma, come suo amministratore aveva suscitato polemiche proprio per il presunto stigma anti-Lgbt dell’esponente del Grand Old Party. Inutile sottolineare che queste dinamiche poco centrano con un’istituzione scientifica che molto ha fatto per il progresso tecnologico e umano degli Stati Uniti negli ultimi decenni e che ora si ritrova con la principale missione della sua storia recente sotto attacco, a decenni dall’avvio, per il clima da caccia alle streghe imperante nell’era del politicamente corretto. Ormai arrivato a espandersi letteralmente fino agli spazi orbitali.

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