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Frances Haugen nelle scorse giornate è stata ascoltata dal Congresso Usa sulle sue rivelazioni compiute dapprima da whistleblower del Wall Street Journal e in seguito in prima persona a 60 Minutes sulle presunte condotte scorrette compiute da Facebook, accusata dall’ex manager del gruppo di Menlo Park di attuare pratiche capaci di porre il profitto sopra la sicurezza degli utenti.

L’appuntamento era stato fissato per capire se Facebook – che nel suo gruppo include anche Instagram e Whatsapp – è da ritenersi pericoloso e se questa pericolosità può essere neutralizzata. E per permettere alla Haugen di dare continuità di fronte a un decisore pubblico come il Congresso alle dichiarazioni che ha reso da “talpa” e poi scoprendosi come l’informatrice del quotidiano newyorkese nella sua intervista pubblica.

L’audizione della Haugen di fronte al comitato del Commercio del Senato ha sicuramente mostrato contenuti tutt’altro che banali, come la spinta dell’ex product manager a focalizzarsi non tanto sui contenuti postati da Facebook quanto, piuttosto, sugli algoritmi che governando la scelta di ciò che è mostrato prioritariamente agli utenti.

Nel 2018 la compagnia ha infatti cambiato l’algoritmo per premiare le “menaningful social interaction”, promuovendo la costituzione di camere d’eco per ogni profilo in cui nei feed comparivano con maggior frequenza i post di famigliari, amici, persone di vedute simili. Ma questo, come fatto notare dal cofondatore di BuzzFeed Jonah Peretti, ha favorito lo scaricamento di tensioni e rabbia sociale dentro al social di Menlo Park. Analogamente, la Haugen ha denunciato Instagram di promuovere un algoritmo che genera ansia e depressione tra le persone di età adolescenziale, ragazze in testa, creando standard iconografici e modelli estetici problematici e dinamiche competitive.

Tutto questo è stato ripetuto dalla Haugen di fronte ai senatori; i legislatori hanno senz’altro preso nota, ascoltato quella che è sembrata a molti una sceneggiatura da serie Tv, con l’informatore segreto che passa in pochi giorni dal disvelamento della sua identità ai banchi dell’audizione politica e il “cattivo” di turno, Mark Zuckerberg, tornare sul banco degli imputati. La problematicità dello strapotere del big tech, lo abbiamo ripetuto più volte, è una sfida sistemica per le nazioni avanzate e le democrazie contemporanee, senz’altro. Ma a cosa possono portare queste audizioni-fiume?

Negli ultimi quattro anni il Congresso Usa ha avuto per ben sette volte in audizione Zuckerberg e per diverse volte gli altri big della tecnologia, da Jeff Bezos a Sundar Pichai di Google. L’audizione della Haugen non fa che confermare lo iato che esiste tra una tecnologia che gli Usa mantengono come “proprietaria”, perché generata con i fondi e il sostegno delle istituzioni del governo federale, e lo sfruttamento a fini privati e commerciali. Ma dalla lunga serie di audizioni, interventi pubblici, appelli e richieste di chiarimento al big tech, a conti fatti, è sempre emerso ben poco in materia di tutela dei consumatori e dei cittadini statunitensi. Gli Usa non si sono dotati di un apparato analogo al Gdpr europeo, ad esempio, e questo è verificabile navigando su un qualsiasi sito d’informazione d’oltre Atlantico e analizzare le avvertenze che essi segnalano in entrata.

Facebook in quest’ottica porta all’estremo la visibilità del problema del big tech con il dominio degli algoritmi sui trend di interazione e consumo, ma non sembra che le parole della Haugen siano destinate a produrre conseguenze legislative sul breve periodo. E del resto, non si capisce perché un’audizione dovrebbe produrre più dibattito mediatico e politico delle cinque proposte di legge bipartisan sul regolamento del big tech “benedette” dalla giovane presidente dell’Antitrust Usa Lina Khan e languenti al Congresso dall’estate. O perché ci si debba sorprendere del fatto che siano gli algoritmi il vero oggetto del contendere.

Lo si poteva comprendere benissimo pensando al caso dei dipendenti di Amazon schiacciati nei magazzini e nelle consegne dal “Grande Fratello” che ne contingenta i tempi; all’annosa problematica dei rider, simbolo dei problemi della gig economy al servizio di piattaforme normate da algoritmi di domanda e offerta; ai problemi della distopia digitale che, dal welfare alla giustizia, in diversi casi stanno emergendo quando gli algoritmi sostituiscono il fattore umano nella decisione riguardo a date questioni sociali. Accusare di queste pratiche il solo Zuckerberg sarebbe riduttivo. E del resto ogni decisione sul big tech, dalla sacrosanta battaglia per la privacy alla possibilità di uno scorporo dei suoi colossi, non potrà aver seguito reale senza una decisione sistemica sui veri determinanti di fondo della potenza dei campioni del digitale: l’assenza di veri argini etici e “umanistici” agli algoritmi, sulla cui pervasività si fondano i successi economici e d’immagine delle aziende del settore.

Come ha fatto notare su Internazionale il sociologo Evgeny Morozov, il problema di fondo sulle aziende del big tech è  “la presa monopolistica che esercitano sulla nostra immaginazione che costituisce il problema più grande per la democrazia. Ed è solo redistribuendo questa immaginazione, invece di ricorrere a un soluzionismo di facciata, che possiamo sperare di contenerli”. Una via che nemmeno le dichiarazioni della stessa Haugen, che presuppongono una soluzione in grado di essere realizzata all’interno di colossi come Facebook, o le conclusioni di diverse audizioni politiche sembrano essere in grado di indicare affinché si possa concretizzare.

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