Storia /

L’8 settembre 1943 – il fatidico giorno della “morte della Patria”, riprendendo la fulminante definizione di Ernesto Galli della Loggia – è un dramma italiano tuttora irrisolto. La catastrofe seguita all’armistizio – la repentina liquefazione dello Stato e delle forze armate, l’occupazione straniera a nord e a sud, l’orrore della guerra civile – ha scavato una ferita profonda nella memoria collettiva aprendo una piaga ancora non rimarginata e, forse, non più rimarginabile. Per più motivi.

Come nota proprio Galli Della Loggia, nei decenni, scaricato l’intero peso della disfatta su Benito Mussolini e il defunto regime, si è preferito costruire un’immagine-interpretazione, largamente di comodo, fondata su un’attribuzione monopolistica della titolarità dell’idea di nazione. Insomma, secondo i canoni del manierismo resistenziale una volta eliminato il dittatore restava un immaginario quanto immacolato popolo di puri antifascisti e patrioti, unici rappresentanti della “vera” Italia.

Ovviamente le cose furono molto più complesse e laceranti e sempre meno convince – come si evince dall’attuale dibattito storiografico – l’usurata retorica autoconsolatoria tesa non solo a legittimare i nuovi equilibri politici postbellici ma anche a rimuovere l’evaporarsi dell’idea di nazione (con la conseguente e perdurante crisi dello Stato) e la paurosa debolezza etico-politica dimostrata degli abitanti della Penisola in quello snodo cruciale. L’8 settembre – ha scritto Renzo De Felice analizzando l’amplissima “zona grigia” rimasta inerte dinnanzi allo scontro feroce tra opposte minoranze politiche – “non determinò la crisi italiana, ma evidenziò una crisi morale della stragrande maggioranza degli italiani, già in atto”. Una crisi tutt’oggi non risolta.

La Marina non fece eccezione, sebbene la vulgata ufficiale ha cercato a lungo di sminuire, impiccolire, rimuovere i tormenti che attraversarono l’Istituzione. Non a caso una grande storica come Elena Aga Rossi afferma nel suo saggio Una nazione allo sbando (Il Mulino, 2003): “Si è sempre scritto che la flotta eseguì immediatamente le clausole dell’armistizio, dirigendosi nei porti stabiliti. La realtà è completamente diversa. Come è avvenuto molte volte nel nostro passato recente, la storiografia ha evitato di approfondire le vicende della flotta italiana dopo l’armistizio, avvalorando il mito di una Marina fondamentalmente già antifascista, che quindi avrebbe obbedito compatta all’ordine di recarsi a Malta. Si sono taciuti o minimizzati gli episodi di ‘dissidenza’ o di aperta disobbedienza e i casi di autoaffondamento“.

In più imbarazza grandemente ammettere che in quell’immane sciagura non mancarono marinai che, in assoluta buona fede, scelsero di continuare a combattere sotto le bandiere della crepuscolare Repubblica sociale italiana. Tra tutti Junio Valerio Borghese, il mitico comandante della Decima Mas, il violatore di Gibilterra e Alessandria.

Perché? Perché continuare una guerra ormai perduta a fianco di un alleato per nulla amico se non ostile? Perché un principe imparentato con la nobiltà di mezza Europa e ben distante dai riti popolareschi del regime (la mai richiesta tessera del Pnf gli fu recapitata d’ufficio dopo la medaglia d’Oro) decise di condividere – sempre a suo modo – l’ultima avventura di un Mussolini ormai divenuto il “fantasma del Garda”?

Domande ancora aperte. Di certo, Borghese rimase terribilmente scosso all’annuncio della resa incondizionata. “Io l’8 settembre, al comunicato Badoglio, piansi. Piansi e poi non ho più pianto. Perché quello che c’era da soffrire, lo soffrii allora. Quel giorno io vidi il dramma che si andava ad aprire per questa disgraziata Nazione che non aveva più amici, che non aveva più alleati, non aveva più nessuno, non aveva più l’onore, era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa: non ci si batte solo quando tutto va bene”.

Da queste parole emerge in tutta la sua postura la straordinaria quanto “inattuale” figura di Borghese. Un uomo che si scopre (o si rivela) condottiero di stampo rinascimentale, un Colleoni o un Carmagnola piombato all’improvviso nelle tempeste del Novecento che, indifferente alla politica e ai suoi giochi, decide di “lavare” l’onta dell’8 settembre e salvare l’onore nazionale, poiché “la sconfitta militare incide solo materialmente, ma perdere con il disprezzo dell’alleato tradito e con quello del vincitore a cui si supplica di accordarsi, incide moralmente e le tracce restano per secoli”.

Su queste tormentate coordinate etiche, proprio mentre tutto crollava e tutti scappavano, Borghese e i suoi rimasero ai loro posti e decisero di continuare a combattere. Senza speranza, con tigna, per l’onore.

Concluso un accordo d’alleanza “privato” con il Reich tedesco in cui si riconosceva alla Decima la piena autonomia, archiviati gli attacchi previsti ad ottobre contro Gibilterra e Freetown in Sierra Leone e, soprattutto, a dicembre contro New York (un mini sommergibile sganciato da un’unità più grande doveva risalire l’Hudson e sbarcare un nucleo di “uomini Gamma”), in poche settimane la Decima flottiglia si trasformò da reparto d‘incursori in una forza militare articolata su mare e terra. Una compagine dai tratti garibaldini, volutamente apolitica e ultrà patriottica.

All’appello di Borghese risposero migliaia di volontari (secondo le stime alleate complessivamente 50mila uomini) richiamati dal fascino del comandante e dal suo modo tutto particolare di guerreggiare. Rispetto agli ingessati codici sabaudi, in Decima si respirava tutta un’altra aria: solo volontari, rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marò, per tutti l’identico panno della divisa e promozioni soltanto per meriti di guerra. Una vera rivoluzione castrense che affascinò giovani e meno giovani e sgomentò i vertici neofascisti.

Come scrive Franco Bandini: “Questa effettiva indipendenza dette subito ombra ai rissosi atamani che avevano costituito traballanti larve di Uffici e ministeri attorno ad un Mussolini incartapecorito e sfiduciato. E più che l’indipendenza, dette ombra ciò che sotto sotto essi sentivano in Borghese: che non era e non sarebbe mai stato, sotto qualunque firmamento politico ‘dei loro'”.

Da subito i marò iniziarono le critiche verso l’apparato salodiano, in particolare verso il dicastero della Marina affidato nell’ottobre 1943 al capitano di fregata Ferruccio Ferrini. Sfidando ogni censura il giornale della Decima ironizzava sulle «troppe investiture, troppe sedie con troppa gente seduta sopra. Tra ufficiali addetti, capi, sottocapi, vice sottocapi di Gabinetto, direttori di segreteria, segretari particolari, commissari, direttori […] quanta grazia Sant’Antonio, per amministrare una Marina rimasta senza navi”.

Parole e atteggiamenti che stizzirono i notabili della Rsi, sempre più convinti, in buona o cattiva fede, che Borghese stesse progettando un colpo di Stato per “liberare Mussolini dal fascismo” e imbalsamarlo in un mero ruolo onorifico per poi trattare con gli alleati. La crisi si protrasse sino al 13 gennaio 1944 quando Ferrini, d’accordo con il capo della Guardia nazionale repubblicana Renato Ricci e Alessandro Pavolini segretario del Partito fascista repubblicano, fece arrestare Borghese nell’anticamera di Mussolini a Gargnano. L’intento era ridimensionare drasticamente il comandante (se non peggio…) e disperdere il suo “esercito personale”. L’intera faccenda si smontò in pochi giorni: bastò un tintinnio di sciabole dei battaglioni della Decima, pronti a marciare sul Garda per liberar il loro condottiero, per convincere un lunare Mussolini a congedare Ferrini e nominare l’inquisito sottocapo di Stato maggiore.

L’episodio, per quanto risolto, scavò un ulteriore fossato tra i marò e gli uomini di Salò, determinando quella che De Felice considera una “guerra civile fredda dentro la guerra civile calda” costantemente sul punto di degenerare in uno scontro armato. Se ciò non avvenne fu solo per un sottile gioco d’equilibri, poiché “la Rsi era una tale sistema di aggregazioni che togliendo un mattone si rischiava di far venire giù l’intero edificio”.

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