Il golpe Borghese rimane tutt’oggi uno dei principali misteri della Prima repubblica. Poco o nulla è stato chiarito nei diversi processi e tanto, anche a sproposito o volutamente, è stato distorto, occultato, ridicolizzato. Rimosso. Secretato. Restano i perché.
Andiamo per ordine. Dopo le rivelazioni di Paese Sera il giudice romano Claudio Vitalone (figura molto vicina a Giulio Andreotti) promosse i primi arresti: il 18 marzo 1972 furono tratti in arresto Sandro Saccucci, Mario Rosa e Remo Orlandini. Il 19 marzo fu spiccato un mandato di arresto nei confronti di Borghese, già rifugiato in Spagna assieme a Stefano Delle Chiaie. Il 25 febbraio 1972 Saccucci e gli altri imputati furono scarcerati e il primo dicembre 1973 anche la posizione di Borghese fu archiviata. Poteva tornare in Italia ma non volle mai farlo. Perché? Altra domanda. In ogni caso tutta l’accusa crollò: la notte dell’Immacolata del 1970 non era successo nulla. O quasi. Perché?
Il 15 settembre 1974 – dopo la strage di Brescia e quella dell’Italicus, due mattanze ancora oscure… – si aprì una nuova pagina. Giulio Andreotti, allora ministro della Difesa, consegnò alla procura di Roma un rapporto del Sid (Servizio informazioni difesa) pervenutogli dal generale Gianadelio Maletti che rivelava notizie scottanti sul golpe. Il capitano Antonio Labruna, a suo dire sotto mentite spoglie, aveva registrato le dichiarazioni di alcuni personaggi coinvolti nel fallito colpo di Stato. In particolare, Remo Orlandini – uno degli uomini più vicini al principe – sosteneva che il generale Miceli, al tempo capo dei servizi segreti militari e figura molto vicina ad Aldo Moro, aveva incontrato Borghese concordando sul piano eversivo. Quindi Miceli sapeva ed era, verosimilmente, complice. Andreotti lo scaricò subito e lo sostituì, senza motivazioni specifiche, con l’ammiraglio Casardi, un suo fedelissimo.
Il dossier fece riaprire le indagini e il 10 ottobre 1974 vennero spiccati ventitré ordini di arresto, coinvolgendo Saccucci e camerati assortiti più il già intoccabile Miceli. Il generale tacque ostinatamente, negò ogni accusa e, dopo un breve soggiorno in cella, fu liberato e ricompensato per con un seggio in Parlamento nelle liste del Msi-Dn. Almirante ospitò gentilmente il taciturno generale per tre legislature. Perché?
Intanto il 5 novembre 1975 venivano rinviati a giudizio 78 persone. Il processo iniziò il 30 maggio. Gli imputati dovettero rispondere dei crimini di insurrezione armata, cospirazione politica mediante associazione, tentativo di sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi ed esplosivi. La sentenza di primo grado, formulata il 14 luglio 1978, assolse trenta dei settantotto imputati e per i restanti quarantotto caddero le accuse più gravi. Il processo si concluse il 29 novembre 1984 quando la Corte d’Assise assolse con formula piena i 46 imputati di cospirazione. La Cassazione confermò tutto il 24 marzo 1986 riducendo il tentativo di golpe ad un “conciliabolo” di vecchi nostalgici nello stile del godibilissimo film di Monicelli “Vogliamo i colonelli”, con i burattini manipolati e sconfitti dai burattinai.
In realtà le indagini avevano evidenziato, oltre ad una feroce guerra intestina ai servizi segreti italiani (la cordata Maletti contro la cordata Miceli) e la stramba “confusione“ del potere politico, la presenza di parte della massoneria e, soprattutto, l’iniziale connivenza di settori militari importanti. Ma in quella notte fatidica, almeno secondo Delle Chiaie, i generali che dovevano far scattare dal ministero della Difesa il “piano d’emergenza” per mobilitare i comandi periferici e dare inizio al controllo del territorio nazionale, prudentemente si dileguarono: “Per gestire il ‘piano d’emergenza’ fu designato il generale Duilio Fanali, nominato capo di stato maggiore dell’Aeronautica nel febbraio 1968. Il cuore dell’operazione era in quel piano e la riuscita era subordinata a quell’ordine. Ma Fanali non andò al ministero né vi era possibilità, in quel momento, di sostituirlo. Vari e vani furono i tentativi di rintracciarlo e la sua defezione inceppò il meccanismo rendendo impossibile il proseguimento” (L’aquila e il condor, Sperling & Kupfer). Ancora una volta perché?
Dunque, per il capo di Avanguardia Nazionale un tentativo serio ci fu e poteva riuscire. Chissà. Resta la domanda – ennesimo perché – sugli scenari che il putsch avrebbe aperto. È difficile immaginare che, sebbene supportati da parte delle forze armate, Borghese e i suoi sarebbero stati in grado di gestire una situazione così complicata ed evitare, considerata la robustezza della sinistra italiana e gli incerti equilibri internazionali, una lacerante guerra civile o qualcosa tragicamente simile. Non lo sapremo mai.
Di certo, dal suo rifugio spagnolo, il principe si preoccupò assai delle altre opache ipotesi para golpiste che iniziarono da subito a circolare in Italia (il “golpe bianco” di Edgardo Sogno o la “Rosa dei Venti” di Amos Spiazzi) e, ancor di più, delle trame stragiste; alla fine del 1973, convocò a Madrid i quadri superstiti del Fronte Nazionale e, come afferma Delle Chiaie nel suo libro, “spiegò che l’idea del colpo di Stato era da abbandonare definitivamente e negò seccamente l’autorizzazione a usare il nome del Fronte”.
Come sopra accennato, nonostante la revoca del mandato di cattura, Borghese non tornò più in Patria. Nell’aprile del 1974 si recò con Delle Chiaie in Cile, dove fu ricevuto con tutti gli onori dal generale Augusto Pinochet (un golpista vincente…) che assicurò, almeno sembra, aiuti finanziari agli esuli italiani. L’ultimo atto. Rientrato in Spagna il 26 agosto il comandante moriva a Cadice. Aveva sessantotto anni.
Ma il sipario rimase (e a ben vedere tutt’oggi rimane) alzato. Al di là dei tanti segreti e delle molte ombre che tutt’oggi permangono sull’intera vicenda e le sue tante diramazioni nazionali e internazionali, rimane aperta e oscura anche la modalità della morte del protagonista. Vi è chi, come il generale Ambrogio Viviani (ex Sid), ha sostenuto che il comandante sia morto due giorni prima, spirando tra le braccia di focosa signora romana mandata dai servizi, e chi sospetta, come Virgilio Ilari, che “morì in circostanze che fecero sospettare un avvelenamento”. Di sicuro non vi è nulla di certo, salvo che per molti, a partire da Andreotti, la scomparsa di Borghese fu di certo un sollievo…
Ma la nostra storia non è ancora finita. Persino l’ultimo viaggio del principe fu tempestoso. Il ministero degli Esteri pretese che la bara fosse racchiusa in un contenitore ligneo chiuso, una vera e propria cassa d’imballaggio per celare l’ingombrante feretro. Il feretro fu scaricato su una pista secondaria dell’aeroporto di Fiumicino e fatto uscire all’alba su un furgone anonimo diretto verso Roma.
A sua volta il ministro dell’Interno Rumor proibì il servizio funebre “a fusto di cannone”, come d’obbligo per tutte le medaglie d’Oro. Poiché la cerimonia era prevista il 2 settembre nella cappella di famiglia della basilica di Santa Maria Maggiore (territorio del Vaticano) la curia, d’accordo con il Viminale, decise di ridurre la funzione religiosa ai minimi termini. Le autorità però non avevano fatto i conti con l’enorme folla che, indifferente al minaccioso schieramento di forze dell’ordine, gremiva da ore la piazza. E successe l’inimmaginabile. Alla conclusione della frettolosa benedizione, un gruppo di giovani rapì la bara e la riportò all’esterno obbligando le spaventate guardie papaline ad aprire il portone centrale della basilica. In un tripudio di grida e saluti romani la salma rientrò nella chiesa attraverso il varco, da secoli riservato solo ai Papi e ai sovrani, e fu deposta davanti all’altar maggiore dove il comandante ricevette il saluto commosso della sua gente, dei suoi marò.
Il giorno dopo sul Tempo uscì il necrologio di Livio Giuseppe e Andrea Sciré Borghese: “Giunga un ringraziamento particolare ai giovani che con la loro coraggiosa indisciplina hanno inteso condannare l’ingiustizia e la codardia di alcuni e hanno dimostrato la gratitudine del popolo italiano verso chi si è sempre battuto per l’onore d’Italia”. Il resto è silenzio.