La sera del 26 aprile 1945 Junio Valerio Borghese, smobilitati gli uomini e concluse le consegne ai rappresentanti del Cln, lasciava per ultimo la sede milanese della Decima. “Mi diressi, tra la gazzarra che imperversava per le strade, a casa di vecchi amici. Non realizzai, in quei momenti, di sfidare la morte; me ne resi conto dall’espressione dei miei ospiti quando mi videro arrivare in divisa”.
I gentili ospiti erano Sandro Faini e Corrado Bonfantini, due capi milanesi del Partito socialista da tempo in contatto con Borghese. Per sicurezza il principe venne trasferito in un appartamento in via Beatrice d’Este ed affidato al tenente Nino Pulejo, responsabile della polizia partigiana che ne ebbe cura. Borghese, infatti, interessava molto Faini e Bonfantini al punto che proposero al loro ingombrante ospite persino di affiancarli nella loro azione politica. Nelle memorie del comandante raccolte da Mario Bordogna leggiamo: “Se avessi aderito mi avrebbero assicurato la salvaguardia personale di tutti i militari della Decima. Infatti, era noti a tutti il mio attaccamento per gli uomini che mi avevano seguito, nonché la forza organizzativa della Decima: una mia presa di posizione a favore del Partito socialista avrebbe convogliato nelle loro fila migliaia di uomini. Quella richiesta, mossa da interessi di partito, dal loro punto di vista era più che giustificata. Ma per la mia innata refrattarietà ad assumere impegni di ordine politico, respinsi le loro offerte”.
Per quanto possa sembrare surreale il tentativo – proprio nei giorni di piazzale Loreto e delle mattanze partigiane – di arruolare Borghese nei ranghi socialisti, resta documentato l’atteggiamento amicale di Faini nei confronti del comandante anche nelle successive traversie. Non a caso il rappresentante socialista sconsigliò vivamente il suo protetto ad incontrare il capitano di fregata Carlo Resio, del Servizio informazioni segrete della Regia Marina, e l’agente americano Jimmy Angleton, dell’Office of Strategic Service (dal 1948 Cia), venuti appositamente a Milano a cercarlo. Riprendendo Borghese: “I due dicevano di essere latori di un messaggio dell’ammiraglio De Courten, ministro della Marina […] Mi dissero, messaggio era solo verbale, che De Courten aveva urgenza di parlarmi di alcune situazioni provocate dalla cessazione delle ostilità. Mi riservai di decidere. Senonché, nella tarda serata dell’11 maggio, i due, assolutamente inattesi, allarmatissimi, si ripresentarono. Dissero che i partigiani, scoperto il mio rifugio, sarebbero sopraggiunti al più presto per catturarmi”.
In più Angleton confidò ad uno frastornato Borghese che anche (ma era vero?) gli inglesi lo cercavano per fucilarlo sommariamente. Insomma, non c’era tempo da perdere. All’alba del giorno dopo il gruppo partì di gran lena per Roma ma, arrivato il 12 maggio nella capitale, non vi era alcun ministro ad attendere. Anzi, De Courten non volle in alcun modo ricevere il comandante e ordinò a Resio di trovare la “soluzione più opportuna per mettere Borghese in condizioni di essere giudicato in tempi di maggiore serenità e obiettività. È così avvenne”.
Il 19 maggio il principe fu consegnato ai militari americani e trasferito in una cella d’isolamento nel Centro sperimentale di Cinematografia a Cinecittà, per l’occasione trasformato in un campo di concentramento. Franco Bandini aggiunge a sua volta un particolare interessante: “Per quanto incredibile oggi possa sembrare, Sandro Faini partì per la capitale, chiese udienza a Maugeri (capo del Sis della Marina) e volle sapere da lui per quale ragione a Borghese era stato giocato ‘un tiro mancino’. Maugeri si rifiutò di spiegare alcunché, e Faini dovette tenersi la sua indignazione e la sua curiosità”. Insomma, anche fuori tempo massimo, il capo socialista cercò d’aiutare il principe mentre la Marina (e gli americani) preferirono chiudere la faccenda “congelando” provvisoriamente l’uomo in un sicuro carcere. Resta il fatto che Borghese fu l’unica figura di rilievo della Rsi ad essere tratta in salvo dagli statunitensi, molto interessati al patrimonio di esperienze belliche non convenzionali della Decima e al suo personale qualificato. E non erano i soli. Secondo Renzo De Felice, “gli americani pensavano di utilizzare i famosi ‘maiali’ per la guerra contro i giapponesi. Gli inglesi fecero di più: una nave (ma forse due) che, a operazioni belliche finite, trasportava dalla Jugoslavia armi per gli ebrei di Palestina, fu fatta saltare dai ‘maiali’ della Decima”. Pagine ancora poco indagate.
Il 6 giugno 1945 Junio Valerio compì trentanove anni e il 19 ricevette la visita di Harold Alexander, comandante in capo del dispositivo militare britannico nel Mediterraneo. Il vecchio maresciallo si sincerò delle condizioni del prigioniero e gli promise, come effettivamente fece, d’informarsi sulla sorte della sua famiglia. Dopo mesi di lunghi interrogatori gli anglo-americani si decisero a rilasciarlo in quanto “non criminale di guerra“. Una brevissima parentesi. Le autorità italiane intervennero e decisero che Borghese doveva essere processato a Milano, una sede giudiziaria, considerato il clima politico, estremamente penalizzante per l’imputato. Per sua fortuna il principe, nel frattempo detenuto a Procida, poteva ancora contare su una rete di amicizie importanti sia in Marina militare che nell’aristocrazia romana e in Vaticano (lo stesso Montini, futuro Paolo VI, scrisse una lettera alle autorità alleate in favore di Borghese) e il 20 maggio 1947 il processo fu spostato nella capitale.
Durante il dibattimento, nonostante i tentativi dell’accusa di ridurre l’attività della Decima repubblicana all’attività anti partigiana sorvolando su tutto il resto, la difesa riuscì a dimostrare sia l’impegno alla salvaguardia degli impianti industriali del Nord e del porto di Genova che i contatti con il governo del Sud per la difesa della Venezia Giulia. Dopo diverse interruzioni il procedimento si concluse finalmente il 17 febbraio 1949.
Come ricorda Borghese: “Riconosciuto ‘non colpevole’ di ‘atti criminosi’ né di ‘rapine’ né di ‘sevizie efferate’ né di ‘stragi’ fui condannato a 12 anni per ‘collaborazionismo col tedesco invasore’. In base al mio passato militare e anche in base all’amnistia Togliatti, allora ministro della Giustizia, lasciai il carcere di Regina Coeli alle ore 19 del 17 febbraio 1949”.
L’avventura militare e giudiziaria del principe si era conclusa ma l’uomo non si rassegnò. Una volta libero, Borghese inviò ai reduci della Decima una lettera di saluto in cui ribadiva che: “Solo col ristabilirsi dei principi morali si può iniziare l’opera di ricostruzione: occorre che cada la menzogna nazionale su cui si regge l’attuale classe governante”. Ma, intanto, il primo pericolo rimaneva: “Il comunismo, l’unico, perenne nemico”. Si apriva così, agli albori della Guerra fredda, un nuovo intricato capitolo della romanzesca vita di Junio Valerio.