Tristezza per l’insoddisfazione del presente. Nostalgia di un passato ritenuto migliore. Angoscia per il futuro. Frastuono nella mente provocato dal continuo rimuginio. Esiste un termine nella lingua russa, un classico lost in translation, per definire questo insieme di sentimenti, emozioni e sensazioni: тоска. тоска, una parola, mille significati.
Il fatto che in italiano e in altri idiomi non esistano corrispettivi di тоска è indicativo dell’unicità che connota il notoriamente tormentato e afflitto animo russo (русская душа), il cui vivere in stato di struggente afflizione è tutt’altro che uno stereotipo. Spiegando attraverso i libri questa condizione psicologica che riguarda i russi, oggi e ieri rebus avvolto in un enigma per gli europei, Fëdor Dostoevskij fece la sua fortuna.
Scrivere e parlare della тоска, di quel sentimento nostalgico che impedisce di vivere serenamente il presente e condiziona la percezione di quello che è il proprio posto nel mondo, è fondamentale ai fini della comprensione e dell’interpretazione dell’incognita Russia. Perché trattasi di uno stato d’animo comune sia alle masse sia ai decisori, in quanto proprio dell’homo russicus, in parte legato a quel senso di identità troncata che mai ha reso i russi né completamente europei né pienamente asiatici. E perché movente che ha sempre guidato, e sempre guiderà, le ambizioni di grandezza del Cremlino.
Ieri non è ancora finito
La Russia vive e opera in un orizzonte spaziotemporale, dove il passato è l’ombra del presente, che l’Europa potrà cominciare a capire soltanto quando si disfarà della propria mantella post-storica. Fino a quel momento, causa la naturale e inevitabile inintelligibilità tra attori storici e attori post-storici, la Russia continuerà a guardare la sorellastra Europa con тоска e l’Europa continuerà a considerare la Russia un rebus avvolto in un mistero dentro ad un enigma.
Quanto il passato in Russia sia incredibilmente attuale, e inverosimilmente tangibile, lo si può comprendere soltanto visitandola. Da Mosca a Omsk, e da Murmansk a Vladivostok, negli edifici brutalisti risaltano gli stemmi della defunta Unione Sovietica, nelle chiese si prega la Trinità e si baciano le icone di santi guerrieri e martiri del lontano e vicino passato, da Aleksandr Nevskij ai Romanov, e i panorami urbani sono dominati da monumenti ciclopici e cremlini. Impossibile non provare la тоска se si è russi. Impossibile non sentire una qualche forma di nostalgia per un’epoca mai vissuta anche se russi non lo si è.
In Russia, dove il passato è presente, su tutto ciò che è accaduto ieri non è ancora calato il tramonto. E se la тоска spinge anziani e più giovani a idolatrare fantasmi del passato, come Stalin, sui decisori politici dell’epoca postsovietica ha avuto un altro effetto: li ha persuasi che avrebbero dovuto riappropriarsi di tutto ciò che fu perduto tra il 1989 e il 1991. Non si può risalire alle origini e alle ragioni di Vladimir Putin, eletto dallo stato più profondo per porre fine al nuovo periodo dei torbidi, prescindendo dalla descrizione del ventre che lo partorì.
URSS, ieri, oggi, sempre
In principio fu Sergej Karaganov, teorico della militarizzazione delle comunità russofone nell’estero vicino russo, a trasformare il senso di nostalgia per la perduta grandezza sovietica in qualcosa di diverso: un indirizzo politico. Poi venne Evgenij Primakov, che, dopo la pioggia acida del 1999 – dal bombardamento di Belgrado all’incidente di Pristina –, teorizzò la transizione multipolare. E infine, al termine di nove anni di guerra civile, terrorismo, criminalità e recessione, dai meandri dello stato più profondo giunse Putin.
Voglia di rivalsa. Desiderio di un secondo round. Sogno di una vittoria che sia in grado di cancellare le sconfitte del passato. E l’Unione Sovietica come bussola, perché il più ambizioso esperimento sociopolitico del Novecento fallì, sì, ma a causa della miopia e del lassismo della classe dirigente e dopo, comunque, aver coronato la più fervida e antica fantasia degli eredi di Rurik e Vladimir: fare di Mosca la nuova Roma, sebbene non in senso cristiano, e cioè caput mundi – il centro del mondo.
I russi non rimpiangono l’Unione Sovietica perché latentemente marxisti: nessuno sarà mai in grado di persuaderli che una kommunalka è meglio di una dacia, e neanche di costringerli ad abiurare i loro legami ancestrali con Cirillo e Metodio. Dell’Unione Sovietica, quel passato che non passa – per dirla alla Limes –, essi rimpiangono i trionfi scientifici – come i successi nella corsa allo spazio –, il prestigio e l’influenza nelle relazioni internazionali – come il ruolo determinante nel processo di decolonizzazione. Capire questo equivale a compiere il primo passo verso la comprensione di Putin e di chiunque altro lo succederà.