Quando nacque l’Italia? Come Stato unitario, la risposta è nota: al culmine del Risorgimento, dopo le imprese politiche di Camillo Benso di Cavour, con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861; come entità geopolitica, l’Italia era considerata un tutt’uno già da molti secoli, perlomeno dalla divisione della penisola nelle undici regioni operate durante l’epoca romana ai tempi di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) che mostrò come la Res Publica pensasse organicamente all’Italia. Ma per quanto riguarda la nascita dell’Italia come concetto e creatura sociale, culturale e, in un certo senso, politica è Dante Alighieri che può essere considerato il principale responsabile.
Dante con la sua opera poetica e il suo parallelo messaggio politico ha creato la sintesi di ciò che ha unificato una penisola divisa e frammentata, ai suoi tempi, da un periodo pari a quello che lo separa dai giorni nostri. Dalla calata dei Longobardi in Italia (568-569) che divise la penisola allora occupata dai bizantini e ne avviò una divisione destinata a durare tredici secoli alla sua nascita (1265) passano sette secoli, esattamente quanti separano la sua morte, avvenuta tra il 13 e il 14 settembre 1321, e i giorni nostri. E nella sua intera opera Dante, da ultimo fautore dell’Impero universale nella cultura medievale, gettò i semi per la costruzione di un patrimonio comune a livello di civiltà.
Fautore di un metodo che imponeva “altamente pensare e di robustissimamente scrivere” secondo Vittorio Alfieri, “padre degli esuli” e di tutti coloro che vanno penando in cerca di una patria secondo Ugo Foscolo, Dante ha avuto il fondamentale merito di sdoganare il concetto di “Italia” unendo le varie determinanti della moderna civiltà nazionale. Innanzitutto, definendo sul campo, con la Commedia, il canone unitario della lingua quale primo seme di un vernacolo comune in grado di permettere a tutti i cittadini della Penisola di esprimersi e capirsi, gettando i semi di un processo che nei secoli a venire avrebbe fatto della sua Firenze la patria dell’italiano per antonomasia.
Settecento anni dopo la morte di Dante l’Italia è “il bel Paese dove il sì risuona”, definizione tanto nota quanto pregnante di significato; in quest’ottica l’Italia è stata accomunata a un altro Paese europeo, la Germania, in quanto Stato sorto creando prima delle fondamenta il “tetto”, attraverso la strutturazione della cultura delle élite, in grado sul medio-lungo periodo di collegare profondamente intellettuali e popolo (operazione compiuta appieno sia dal “volgare” di Dante che dallo Hochdeutsch di Lutero) grazie alla definizione letteraria e aristocratica del mito fondativo di una nazione ancora senza Stato (operazione uscita con più successo a Dante). “lI nostro padre della patria eccelleva in un’arma immateriale: la parola”, ha sintetizzato in Imperdonabili Marcello Veneziani, secondo cui “nei momenti alti l’Italia si lascia guidare dai poeti, in quelli bassi dai parolai”.
Il fattore amalgamante della lingua, in quest’ottica, andò di pari passo con la riconduzione a unità compiuta da Dante della comune eredità romana e cristiana dell’Italia. Nella visione dantesca, l’idea di un Impero universale non poteva che consolidarsi attorno a Roma, città eterna sia per il retaggio della Res Publica che per la sua natura di cuore della Chiesa, punto di sintesi dell’equilibrio tra i “due soli” che il poeta immaginava potessero splendere assieme.
Come ha sottolineato Augusto Del Noce, Dante è pensatore profondamente politico perché creò una profonda aspettativa per una vera “unificazione” d’Italia, materiale, culturale o sociale che fosse, di cui altri grandi pensatori – altri letterati – da Petrarca a Leopardi, passando per Machiavelli – poi coltivarono generando un principio secondo cui la cultura e l’identità nazionale ben si potessero conciliare con l’apertura alla contaminazione e una sostanziale universalità. Rendendo l’Italia, oggigiorno, l’unica nazione tra le più avanzate del pianeta il cui vero strumento di potenza sia di natura culturale e di soft power. La scelta di Virgilio come esempio morale testimonia il legame diretto con Roma; il viaggio umano compiuto metaforicamente da Dante nella Commedia, invece, segnala la sua scelta di porre l’identità cristiana come ulteriore contrafforte della sua Italia.
Descrivendo la Chiesa Romana, Dante la definisce “Madre piissima” e “Sposa del Crocifisso”. E la contiguità tra il pensiero di Dante e l’insegnamento cattolico è molto più profondo di quanto possa esser fatto supporre dai diversi attacchi compiuti dal Sommo Poetà alla Chiesa coeva e a papa Bonifacio VIII, che a inizio Novecento del resto anche Benedetto XV giustificò. Il fine stesso della Commedia, che ha in comune col messaggio cristiano l’intento di cambiare radicalmente l’uomo, di portarlo dalla selva oscura del peccato alla santità, può esser messo in filigrana con l’insegnamento evangelico. Dedicando al poeta , a sette secoli dalla nascita, il motu proprio Altissimi cantus il 7 dicembre 1965, Papa Paolo VI dichiarò: “nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica”, e anche Benedetto XVI sottolineò la profondità teologica della preghiera di San Bernardo alla Vergine contenuta nel Paradiso in un Angelus del 2006. Per Dante la cristianità era e doveva essere punto d’incontro tra l’Italia e l’ecumene, manifestazione dell’universalità della cultura che intendeva creare. A sette secoli dalla sua morte, tuttora l’Italia si abbevera alla fonte del Sommo Poeta. Potendo trovare nella sua opera il vero “manifesto” della moderna nazione costituitasi, cinque secoli dopo, come Stato unitario.