Storia /

Una pagina misconosciuta della Grande Guerra si svolse in Africa Settentrionale, in quella Libia appena invasa e malamente conquistata. Tra l’autunno del 1915 e l’inizio del 1916 l’insurrezione dei senussi, rifornita dai sommergibili austro-tedeschi e organizzata dagli ufficiali turchi, sembrò sul punto di smantellare la presenza dell’Italia, in guerra al fianco dell’Intesa, e dilagare verso il Nilo, l’Algeria francese e il Sudan. In Libia in breve tempo i capisaldi nell’interno cominciarono a cadere uno dopo l’altro, e poi in tutte le altre postazioni alle truppe italiane sorprese e investite dalle forze della resistenza anticoloniale non rimase che arretrare o capitolare. I morti si contavano a centinaia, i prigionieri caduti in mano ai libici (e spesso rimasti presso di loro mesi, se non anni) furono un paio di migliaia. In molti casi le perdite furono pesantissime: nel suo diario il ministro delle Colonie Martini definì il disastro di Gasr Bu Hadi “un’altra Dogali” e Tarhuna “una sconfitta peggiore di Adua”. A metà 1915 il controllo italiano era tornato ad essere, grosso modo, quello che era stato fra il 1911 e 1912: ristretto cioè alle principali città della costa, collegate fra loro via mare».

Nonostante le sconfitte, lo Stato maggiore italiano si rifiutò di distogliere truppe dal Carso e dovette chiedere l’intervento delle truppe britanniche. Londra, per nulla entusiasta di sostenere il vacillante alleato, diede il suo assenso solo quando l’insurrezione minacciò apertamente l’Egitto e il Sudan: il 12 novembre 1915 i ribelli conquistarono la piazzaforte di Sollum, e presto giunsero in vista di Marsa Matruch. Mentre gli italiani, sotto il comando del molto modesto generale Giovanni Ameglio,  rimanevano rinserrati nelle loro piazzeforti costiere, il comando del Cairo organizzò la Western Frontier Force — circa diecimila uomini, meno di un terzo del contingente italiano in Libia — composta principalmente da reparti indiani, sudafricani e neozelandesi (tra cui un battaglione maori); nel febbraio del ’16 la WFF sconfisse gli insorti ad Agaghir e un mese dopo a Sollum; dopo la distruzione della loro base ad Amsèat, i ribelli ormai sconfitti si dispersero nel deserto e il loro capo Ahmad al Sharif riuscì fortunosamente ad imbarcarsi su un sommergibile austriaco che lo portò a Pola, allora base asburgica.

L’Egitto era salvo, ma non la Libia. Qualche mese più tardi Costantinopoli inviò Nuri Pascià, un giovane generale che riorganizzò la rivolta anti italiana. Con successo. A differenza di Ameglio, che da Tripoli assediata bombardava prima Cadorna e poi Diaz di telegrammi, l’ufficiale turco, nuovamente padrone del territorio, occupava persino il porto di Misurata facendone una preziosa base per gli u-boot. Gli alleati delegarono il problema a Roma, ma senza risultati apprezzabili. Sino alla fine del conflitto mondiale, sullo scacchiere nord africano gli italiani rimasero in forte difficoltà.

La crisi libica ebbe il suo prezzo: quando nel 1917 il ministro degli Esteri Sydney Sonnino propose di inviare un consistente corpo di spedizione italiano nel Levante Londra accettò solo la presenza di una limitata forza di rappresentanza. Così, il 19 maggio, al comando del maggiore Francesco D’Agostino, trecento bersaglieri e i cento carabinieri sbarcarono a Port Said; inglobati nel XX° Composite Force entrarono in linea combattendo con valore a Gaza e a Khan Yunis per poi entrare a seguito del generale Allemby a Gerusalemme nel 1918. Uno sforzo generoso ma militarmente insignificante e politicamente inutile: alla conferenza di Versailles quando si affrontò il tema delle compensazioni coloniali, i britannici — improvvisamente immemori delle loro sconfitte sul Bosforo e in Mesopotamia — ruvidamente ricordarono al presidente del Consiglio Orlando la limitatezza dell’apporto italiano nella campagna d’Oriente e la fragilità della nostra presenza in Africa. Ogni assenza ha un prezzo. Ieri come oggi.