Sette febbraio 1945. Friuli Orientale. Un centinaio di militi comunisti irrompe di sorpresa nel comando della brigata partigiana Osoppo. Lâazione è rapida, brutale. Terroristica. In pochi minuti gli attaccanti sono padroni del campo. Il bilancio dellâoperazione è netto. Vittoria. I difensori, frastornati, alzano le braccia. Urlano, imprecano. Nessuno li ascolta. I vincitori hanno una stella rossa sul berretto e tanta fretta. Gli ordini del partito sono chiari e non si discutono: il quartier generale degli âosovaniâ deve essere annientato. Il plotone dâesecuzione è pronto. Qualcuno intona âbandiera rossaâ. PietĂ lâè mortaâŚ
I sicari assassinano il comandante Francesco De Gregori – lo zio dellâartista romano -, i suoi luogotenenti – tra cui Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo – e i loro commilitoni. Un massacro. Venti partigiani italiani, venti antifascisti cadono falciati da raffiche di mitra. Raffiche corte, raffiche lunghe. Raffiche assassine. Tutte sputate dai mitra impugnati da altri partigiani. Anche loro italiani. Anche loro antifascisti. PerchĂŠ?
Una domanda che rimbalza da decenni tra i monti del Friuli, un interrogativo silenziato per piĂš di mezzo secolo nei tribunali dello Stato o sepolto negli archivi del defunto Pci e dellâex Jugoslavia comunista. Ă âlâaffare Porzusâ, uno sporco affare.
A tuttâoggi – persino in questo primo scorcio del terzo millennio – quei venti morti rimangono un ricordo intollerabile per gli sfiatati cantori del manierismo resistenziale, un problema terribilmente fastidioso per segmenti della societĂ politica italiana e una questione aperta che dopo piĂš di settantâanni imbarazza giornalisti e gran parte degli storici. Di quella strage lontana meglio era (è) non parlarne. Meglio dimenticare, scordare. E – se proprio necessario – basta(va) un accenno confuso e deviante. Ancora una volta, perchĂŠ?
Le risposte – complesse, atroci, definitive – le ritroviamo in Porzus. Violenza e Resistenza sul confine orientale. Un libro importante. Coraggioso. Il lavoro, curato da Tommaso Piffer e pubblicato – con il contributo dellâAssociazione Partigiani Osoppo Friuli – nel 2012 da Il Mulino, raccoglie i contributi di Elena Aga-Rossi, Patrick Karlsen, Orietta Moscara, Paolo Pezzino, Tommaso Piffer e Raoul Pupo ed illumina con fredda obiettivitĂ il contesto nazionale e internazionale del tempo, i passaggi che portarono allâeccidio, le ragioni che hanno reso controversa la memoria del massacro, le tappe del dibattito storiografico e – dato centrale – i motivi dellâassordante silenzio di una ârepubblica nata dalla resistenzaâ.
Rompendo schemi desueti quanto ipocriti, gli autori del saggio – senza sconti per alcuno e forti di unâimponente documentazione proveniente dagli archivi italiani, ex jugoslavi, tedeschi e britannici – hanno in primo luogo indagato la tragedia delle terre di frontiera. Non a caso. Analizzare i fatti del 7 febbraio â45 e gli eventi collegati significa non solo illuminare un angolo buio della nostra storia ma (ri)aprire il dibattito sulla complessitĂ e le divisioni del movimento di resistenza antifascista in Europa, in Jugoslavia e in Italia. Infrangendo piĂš di un tabĂš.
Come Piffer sottolinea nella sua introduzione, “la vicenda di Porzus e il contesto in cui essa è collegata mostrano come la storia del periodo 1943-1945 sia comprensibile nella sua interezza solo se ricondotta al suo vero contesto: un contesto nel quale il conflitto ‘bilaterale’ tra democrazia e nazifascismo si intreccia con il conflitto ‘trilaterale’ tra fascismo, democrazia e comunismo. Un duplice scontro allâinterno del quale il conflitto tra forze comuniste e forze antifasciste non comuniste ebbe in alcune zone unâintensitĂ non dissimile da quella tra le stesse forze antifasciste e il nazismo”.
Andiamo per ordine. Nellâultimo conflitto mondiale nei paesi occupati dallâAsse il rifiuto allâhitlerismo fu un richiamo potente e – come, peraltro, il collaborazionismo – assolutamente trasversale. Lâopposizione armata allâOrdine Nuovo berlinese assunse – soprattutto dopo El Alamein, Stalingrado e lâarmistizio italiano -, dimensioni di massa, trasformandosi in un fattore politico e militare importante in cui sâintrecciarono motivazioni diverse, talvolta contradditorie e spesso contrastanti.
I comunisti, sebbene avessero imbracciato le armi â a differenza delle formazioni nazionaliste, come i gollisti in Francia o lâesercito clandestino polacco â solo nellâestate â41 dopo la rottura del patto tra lâURSS e il Reich, presto trasformarono lâantifascismo in un vettore ideologico ambiguo, in un coltello a doppia lama. Su ordine di Mosca, celandosi dietro a parole dâordine rassicuranti (moderate, unitarie e persino scioviniste), i quadri dei PC â un nucleo di solidi ârivoluzionari di professioneâ, forgiati da decenni di sconfitte e ripetute âpurgheâ interne â trasformarono la guerra contro la Germania in una fase prodromica alla rivoluzione e allâespansione sovietica. In questa logica le forze resistenziali (comprese quelle dâispirazione anarchica o trotzkista) che non accettavano lâegemonia delle âavanguardieâ dovevano essere neutralizzate o/e annientate. Con ogni mezzo, in tutta Europa.
Come annota ancora Piffer, è proprio in nome dellâantifascismo ÂŤche furono eliminati i partigiani âosovaniâ a Porzus, sulle cui credenziali democratiche non vi può essere dubbio alcuno⌠è in nome dellâantifascismo che le forze di Tito eliminarono le forze partigiane nazionaliste per poi imporre al paese un regime comunista, o che nel 1946 giustiziarono il loro leader Draza Mihailovic, che allâinizio del conflitto avevano celebrato come il leader della resistenza antifascista europea. Ed è sempre in nome dellâantifascismo che Stalin fece massacrare la resistenza polacca non comunista durante lâinsurrezione di Varsavia del 1944, cosĂŹ da poter instaurare senza ostacoli il sistema socialista nel paese alla fine della guerra”. La tragedia carnica non fu quindi unâanomalia, un âtriste erroreâ ma era parte di un preciso progetto politico-strategico fissato da Stalin e applicato con cinismo e determinazione dai suoi terminali nazionali.
Al tempo stesso Porzus e lâintera vicenda del confine orientale presentano varianti e conseguenze originali e impreviste. Tra il 1943 e il 1954 (e oltre), in quellâangolo dâItalia si consumò non solo il âconflitto trilateraleâ ricordato da Piffer, ma anche un segreto duello per la primazia sul movimento comunista nellâEuropa meridionale tra due partiti comunisti ferocemente stalinisti e tra Tito e Togliatti, due leader rigidamente âmoscovitiâ. Un gioco ambiguo e, tuttâoggi, poco esplorato.
Come spiegano nei loro contributi Raoul Pupo e Orietta Passerini, nellâultima fase del conflitto Josif Broz Tito, a differenza del callido Palmiro â rimasto prudentemente in URSS sino al collasso del fascismo â, divenne uno dei protagonisti del panorama internazionale. Capo di un esercito irregolare e (grazie al contributo britannico) vittorioso, il rivoluzionario croato aveva â sfidando gli ordini di Stalin, attento agli equilibri internazionali e fautore di un gradualismo rivoluzionario â imposto il comunismo piĂš duro e severo a unâintera nazione.
Forte del suo successo, Tito si convinse dâessere il principale referente europeo di Mosca e impose al PCJ una deriva estremistica, un intreccio di politiche radicali e dâesasperato nazionalismo âgran yugoslavoâ. Approfittando della battaglia contro gli invasori stranieri, i âtitiniâ scatenarono in una guerra civile feroce e una âpulizia di classeâ accurata quanto criminale. Con lâaccusa di âfascismoâ, i partigiani rossi annientarono non solo gli avversari e i ânazionalisti borghesiâ ma ogni segmento sociale, politico e culturale considerato potenzialmente nemico della ânuova Jugoslaviaâ: intellettuali, religiosi, imprenditori, piccoli e grandi proprietari terrieri e poi monarchici, liberali e poi socialdemocratici, anarchici, autonomisti croati, sloveni, macedoni, albanesi.
Come ricordava lâex braccio destro di Tito e poi dissidente Milovan Gilas nel suo libro âConversazioni con Stalinâ (Feltrinelli, 1962), il padrone del Cremlino non apprezzò questo âinutile zeloâ che rischiava dâirrigidire gli americani, ma con realismo preferĂŹ posticipare lâinevitabile rottura e legittimò parte delle ambizioni territoriali â cassando però le incredibili promesse (lâoccupazione del Veneto e della Lombardia) fatte agli jugoslavi da Churchill â dellâingombrante discepolo balcanico.
In nome della fedeltĂ allâUnione Sovietica, ai comunisti italiani non rimase che adeguarsi e obbedire. Il punto di svolta decisivo fu lâincontro a Roma, nellâottobre del 1944, tra i dirigenti titini e il leader del PCI, nel quale Togliatti accettò le loro pretese sullâIstria, Fiume, Trieste, Gorizia e gran parte del Friuli; pochi giorni dopo âil miglioreâ emanò la direttiva di favorire in ogni modo “lâoccupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito”, ordinando ai suoi referenti locali di “prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dellâimperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli”.
Da quel momento le formazioni comuniste italiane passarono sotto gli ordini diretti del comando del IX Corpus jugoslavo; chi non tra i âgaribaldiniâ mugugnò o protestò â e vi furono piĂš casi â fu prontamente eliminato. In questo quadro la stessa esistenza dellâOsoppo divenne per il PCJ e i suoi ausiliari italiani, semplicemente intollerabile. I comunisti di Togliatti, per ordine della federazione del PCI di Udine o/e dai âtitiniâ â la questione è ancora aperta â, sâincaricarono di ârisolvereâ il problema e il sette febbraio â45 salirono a PorzusâŚ
Da subito, come nel caso delle foibe, il PCI cercò di stendere una fitta coltre sullâepisodio. Per decenni, con tenacia, dogmatismo e arroganza Botteghe Oscure e un triste sodalizio come lâANPI imposero una visione manichea e storicamente inattendibile; ancora nel 1992 Occhetto e il PDS resero impossibile a Cossiga una commemorazione ufficiale a Porzus. E quando una persona onesta e intelligente come lâex comunista triestino Stelvio Spataro osò qualche accenno sulla vicenda, fu subito brutalmente zittito. Per il partito nulla dâimportante era successo. Di nulla si doveva parlare. Un silenzio assordante. Non mancarono gli ipocriti e gli ignavi: uno per tutti il non compianto Giorgio Bocca che accusò il povero De Gregori di viltĂ , attendismo e, persino, di grafomania anti comunistaâŚ.
Resta il fatto che per Togliatti ieri â e per i suoi tristi epigoni, oggi â è(ra) difficile, forse impossibile ammettere, come sottolinea Patrick Karlsen che ÂŤper il partito comunista la motivazione nazionale della guerra di liberazione era un fatto negoziabile sullâaltare dello scontro di classeÂť. Non a caso per lo studioso (autore di un importante lavoro come âFrontiera rossa. Il PCI, il confine orientale del contesto internazionaleâ, Editrice Goriziana, 2010) Porzus e le foibe sono eventi assimilabili ÂŤnella misura in cui a essere colpiti dalla pulizia di classe comunista sono stati altri antifascisti. Nel fenomeno delle foibe vediamo almeno due logiche in azione. Câè unâepurazione preventiva nei confronti di coloro che, per ragioni ideologiche o nazionali, vengono considerati nemici della Jugoslavia comunista che si sta formando ed espandendo; e câè unâepurazione punitiva, diretta a eliminare i fascisti o presunti tali. Nellâeccidio di Porzus allâopera câè solo la prima spinta: a essere trucidati dai partigiani comunisti furono gli altri resistenti, alleati nella lotta di liberazione ma contrari allâannessione alla Jugoslavia comunistaÂť.
Accanto a De Gregori, Pasolini e gli altri martiri âosovaniâ lungo è l’elenco di antifascisti e partigiani assassinati, traditi, infoibati. Il primo è Luigi Frausin, dirigente triestino del PCI, ostile alla sottomissione ai âtitiniâ: arrestato dai nazisti su âdelazione slavaâ â come recita la motivazione della Medaglia dâoro alla memoria â, morĂŹ assieme ai suoi compagni tra le mura della Risiera. Altri furono eliminati direttamente dai comunisti: tre membri del Cln di Trieste; due di quello di Fiume; Vinicio Lago, ufficiale di collegamento della Brigata Osoppo; Enrico Giannini, del Corpo Italiano di Liberazione.
Il 30 maggio 2012 Giorgio Napolitano si è recato (primo Presidente della Repubblica) a Porzus per rendere omaggio alle vittime dellâeccidio. Un gesto importante. Nel suo discorso in municipio lâallora inquilino del Quirinale ribadĂŹ che “la Resistenza ha avuto anche ombre, macchie e la piĂš grande è lâeccidio di Porzus” le cui radici vanno rintracciate “nelle pretese di dominio di una potenza straniera a danno dellâItalia in una zona martoriata come quella del confine orientale”. Un monito forte ai âgiustificazionistiâ, ai ânegazionistiâ, a tutti i nostalgici del filo spinato, un segnale a quella stramba e petulante coorte che ancora rifiuta dâaccettare la tragedia del confine orientale.
Non vi è pace senza giustizia, non vi è superamento senza veritĂ . Anche a Porzus. Anche in quellâultimo lembo dâItalia.