Genio militare e impavido condottiero, carismatico statista e padre inconsapevole dei processi di unificazione nazionale dell’Europa, nonché figlio e avversario della Rivoluzione al tempo stesso, Napoleone è stato tutto e il contrario di tutto: carceriere del Papa e cattolico devoto, amante della Russia e invasore di Mosca, nemico dell’Ancien Régime e despota illuminato.
Oggetto di una venerazione mitopoietica e religiosa già in vita, che gli avrebbe permesso di fare rientro a Parigi senza colpo ferire e tentare l’ultima sfida al destino durante i celebri Cento giorni (Cent-Jours), Napoleone ha vissuto da eroe ed è morto da leggenda. Le sue gesta, che hanno mostrato al mondo intero il significato di grandeur, sono state eternizzate con l’inchiostro indelebile dell’ardimento omerico e hanno ispirato generazioni di statisti e strateghi, non soltanto in Francia.
Il politicamente corretto sta mettendo alla prova il processo di trasmissione della memoria di Napoleone, figlio legittimo di un’era costruita da grandi uomini carlyleniani e intrisa del sangue delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ma non prevarrà: troppo grande è il suo mito, e ancora troppo presente è la sua ombra, oggi, a distanza di duecento anni dalla sua morte.
La forza dei numeri può esplicare ciò che le parole non potrebbero mai, o potrebbero soltanto in parte: Napoleone è il personaggio storico al quale sono stati dedicati più libri dall’Ottocento ad oggi, oltre 300mila, ovvero più di quanti siano stati mai scritti su Gesù, Maometto e Alessandro il Grande, i tre rivoluzionari più importanti nella storia dell’umanità. Perché Napoleone è l’uomo che ha scritto un’intera epoca, svolgendo un ruolo unico nel determinare la direzione che avrebbero preso le storie e le identità di Europa, Russia, Stati Uniti, Asia e Africa, ed è colui che, per dirla alla Gauchon, ha ricordato al globo che “non c’è Francia senza grandeur”.
L’eredità di Napoleone è tangibile, senza tempo, e spazia dai codici civili alla schematizzazione della burocrazia pubblica dell’Europa continentale, e dal diritto di famiglia all’attuale conformazione degli eserciti nazionali di tutto il pianeta. Uomo universale, nel vero senso del termine, l’Imperatore dei francesi ha spianato la strada all’epoca delle guerre clausewitziane, oggi superata dall’avvento dei conflitti postmoderni, posteroici, senza limiti e “a morto zero”, e ha lasciato a noi, suoi posteri, un lascito inestimabile di insegnamenti e lezioni su arte dell’inganno e guerra psicologica.
Il potere della psiche
Napoleone viene ricordato per l’incredibile genio militare, che gli avrebbe permesso di riuscire laddove nessuno dei predecessori aveva avuto successo, ossia egemonizzare l’intera Europa continentale, ma altrettanto meritevole di nota è la componente psicologica del suo agire. Convinto sostenitore del predominio della mente sul corpo, il condottiero-imperatore riteneva fondamentale essere presente sui principali campi di battaglia in funzione di supporto morale alle truppe.
Noto per il fatto di esercitare un astro preternaturale sui propri soldati, Napoleone è colui che ebbe a dichiarare che “nel mondo ci sono soltanto due forze, la spada e lo spirito, e, alla lunga, la spada viene sempre vinta dallo spirito”; una massima che avrebbe praticato dall’inizio alla fine, ovverosia dalle campagne d’Italia alla battaglia di Waterloo, contraddistinguendosi per la proclamazione di sermoni incendiari e motivazionali dinanzi alle truppe negli istanti immediatamente precedenti alla collisione tra spade e cavalli.
Secondo il filosofo e indagatore della natura umana Arthur Pope, una parte consistente delle vittorie della Grande Armata sarebbe da imputare alla tattica morale di Napoleone, utile a dotare i soldati di quella carica propellente necessaria ad affrontare con coraggio (e successo) gli eserciti meglio armati e più numerosi dei rivali, nonché a costruire un senso di lealtà che, anni dopo, avrebbe permesso all’Imperatore in disgrazia di fuggire dall’Isola d’Elba e dare avvio ai Cento giorni. Celebri, a questo proposito, i discorsi alle truppe del giovane generale Bonaparte all’epoca della campagna d’Italia del 1796; innalzati a modello di riferimento nel campo delle tattiche di guerra psicologica dagli studiosi successivi.
Napoleone, in sintesi, ci ha lasciato in eredità la ricordanza dell’imperitura potenza di un fattore troppo spesso sottovalutato: il morale. Condottiero e stratega, sì, ma anche eccelso oratore e abile affabulatore, fu grazie alle parole, oltre che alla spada, che l’Imperatore dei francesi seppe sbaragliare eserciti, farsi largo tra le città dei vinti e fare ritorno in una Francia accerchiata e immiserita, a causa delle sue guerre interminabili, acclamato come un messia salvatore. Perché ogni regime politico, sia democratico sia dittatoriale, non può sperare di durare nel lungo termine se privo dell’ingrediente necessario al sostentamento: l’appoggio delle masse. Masse che abbisognano di essere rese partecipi dei successi bellici, nazionalizzate a mezzo di istruzione e coscrizione, nonché rapite dalla magia dell’immedesimazione carismatica con il proprio leader.
Recuperare dall’oblìo questa componente dell’era napoleonica è più che importante, è fondamentale, perché l’incredibile resistenza dell’ordine egemonico franco-centrico e il supporto del popolo (e delle forze armate) ad un imperatore vinto ed esiliato, ergo sconfitto nella sua totalità, non si possono spiegare né comprendere trascurando il peso esercitato dal fattore psicologico.
L’arte dell’inganno
Dove non arrivano le armi, lì possono giungere gli artigli graffianti dell’arte dell’inganno. E Napoleone, oltre ad essere stato un genio militare, un neurotonico naturale per le proprie truppe ed il costruttore visionario della modernità europea, è stato anche un inarrivabile maestro degli stratagemmi.
Noto al pubblico per essere stato l’architetto del Colpo di Stato del 18 brumaio, un opus magnum del golpismo concepito all’insaputa degli Anziani e con il supporto di militari lealisti, alti papaveri e parenti, nel lungo elenco dei successi di Bonaparte è da annoverare anche l’utilizzazione di un falso storico, Il testamento di Pietro il Grande, che avrebbe persuaso l’opinione pubblica ad accettare l’avvio della campagna di Russia nel 1812.
Il falso, forgiato dal generale polacco di stanza a Parigi, Michel Sokolnicki, fu popolarizzato a livello nazionale (e poi europeo) dallo storico e scrittore al servizio di Napoleone, Charles-Louis Lesur, che all’alba della grande adunanza verso levante lo impiegò come fonte per la stesura de Des progrès de la puissance russe, depuis son origine jusqu’au commencement du xixe siècle, un testo che avrebbe lasciato un’impronta profonda nei decenni a venire, riesumato a cadenza regolare, ad esempio durante la guerra di Crimea e la prima guerra mondiale, per legittimare le campagne belliche delle grandi potenze del sistema Europa contro la Russia.
Le ragioni del successo del falso storico sono da ricercare nel modo in cui fu diffuso tra le masse, da più di un decennio al centro di un potente processo di nazionalizzazione dall’alto, e nel tono allarmante del contenuto. Si scriveva, invero, dell’appena avvenuta scoperta di un piano per il dominio globale ordito nelle stanze dei bottoni del Cremlino che, se non ostacolato, avrebbe messo a repentaglio l’esistenza stessa dell’Europa.
Mosca, spiegavano Sokolnicki e Lesur, avrebbe voluto espandersi sull’intero Vecchio Continente, infettandolo con la propria ideologia conservatrice e reazionaria, e sottomettendone i popoli ai piedi degli zar. I francesi, e gli alleati-vassalli del Blocco continentale (blocus continental), avrebbero dovuto agire in anticipo e cogliere i russi in contropiede, rompendo la pace di Tilsit e procedendo al loro accerchiamento contenitivo. Spaventata e spronata l’opinione pubblica francese, nonché quella europea (e persino britannica), Napoleone poté facilmente e rapidamente raccogliere una possente armata di circa 700mila uomini.
La storia ha dato in parte torto all’imperatore francese, perché muovere guerra alla Russia avrebbe determinato l’inizio della fine dell’epopea napoleonica, e in parte gli ha dato ragione, perché le grandi potenze della contemporaneità hanno dimostrato di aver appreso la lezione – utilizzando espedienti, finti incidenti e presunti complotti per giustificare l’avvio di guerre; vedasi le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – e perché il falso storico in questione sarebbe stato recuperato a più riprese con lo svilupparsi dell’Ottocento e del Novecento, impiegato per catechizzare le masse alla paura russa e divenendo l’equivalente russofobico dei Protocolli dei Savi di Sion.
Da notare, infine, quanto sia curiosamente spaventevole la somiglianza intercorrente tra Il testamento di Pietro il Grande e Il lungo telegramma di George Kennan, tanto che viene da chiedersi se il secondo non sia stato scritto sotto l’influsso del primo.
Gli insegnamenti sull’Inghilterra
L’Inghilterra ha storicamente rappresentato per le potenze continentali dell’Europa quello che l’Afghanistan ha significato per Unione Sovietica e Stati Uniti: una tomba degli imperi. Gli strateghi tardo-ottocenteschi e novecenteschi hanno guardato a Napoleone per imparare l’arte del combattimento, quelli contemporanei possono guardare a lui in materia di oratoria, inganno, nazionalizzazione delle masse e organizzazione dello stato e della macchina burocratica, mentre gli aspiranti egemoni di oggi e domani dovranno prestare attenzione a non ripetere i suoi errori in quel fronte chiamato Inghilterra.
Nolente a costruire una flotta che potesse rivaleggiare con quella britannica, nonostante il trauma inferto da Orazio Nelson, e non pienamente consapevole delle potenzialità economicide offerte dal Blocco continentale – un’arma a doppio taglio male utilizzata che, infine, avrebbe procurato più danni a Parigi che a Londra –, Napoleone fu vinto, oltre da che da una serie di circostanze non previste ma prevedibili (come la nazionalizzazione dei popoli sottomessi all’Impero, dalla Spagna alla Germania), dal fattore Inghilterra.
Come viene spiegato ne “Il volo di aquila. L’epopea di Napoleone in 50 istantanee“, a cura di Salvatore Santangelo e Piero Visani, l’Inghilterra può essere considerata una delle principali ragioni della caduta napoleonica, perché “fedele al principio strategico di impedire la creazione di un’unica potenza al di là della Manica, non sfida mai frontalmente la potenza emergente (prima la Francia Napoleonica e poi la Germania) ma ne consuma la forza nella periferia (la campagna peninsulare, i Balcani, il Mediterraneo) per poi creare le condizioni di uno scontro tra questa (già sbilanciata e dissanguata dalla dispersione delle forze in teatri periferici) e la Russia”.
Chiunque brami e bramerà di costruire un sistema egemonico in e sull’Europa, dovrà prestare la dovuta attenzione al fattore Inghilterra, a sua volta, oggi, legato agli Stati Uniti, pena un’inevitabile e rovinosa caduta in stile Filippo II, Napoleone o Adolf Hitler. Questo, forse, è uno degli insegnamenti più importanti che l’Imperatore dei francesi abbia lasciato alla posterità: mai sottovalutare la “perfida Albione”, burattinaia d’oltremare e tomba degli imperi.