La diplomazia economica giocò un ruolo fondamentale nell’espandere le prospettive politiche dell’Italia della ricostruzione nei primi anni della Repubblica. La Banca d’Italia, assieme al ministero del Tesoro, acquisì il ruolo fondamentale di burocrazia strategica per l’interesse nazionale che ha mantenuto fino ai giorni nostri; le banche di interesse nazionale normate dalla Legge Bancaria del 1936 voluta da Alberto Beneduce  (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Credito Italiano) e deputate al credito ordinario fornirono una piattaforma fondamentale per la difesa del risparmio nazionale anche nelle fasi di più acuta volatilità; Mediobanca, l’istituto fondato su iniziativa del presidente della Comit Raffaele Mattioli nel 1946, fu punta di lancia per la proiezione internazionale e il consolidamento delle prospettive industriali delle imprese italiane.

Il mondo dell’economia e della finanza furono governati con un forte scrutinio dalla classe dirigente della Prima Repubblica a trazione democristiana. Ben conscia che dopo l’esperienza fascista e la disfatta bellica l’Italia necessitasse di agganciarsi con forza alle nuove reti del capitalismo internazionale, acquisire peso e autorevolezza.

La diplomazia economica della Banca d’Italia

In principio l’azione, negli anni della ricostruzione e dei governi di Alcide De Gasperi, riguardò essenzialmente la Banca d’Italia. Via Nazionale doveva farsi garante di un ritorno dell’Italia nel sistema integrato di Bretton Woods, ma al contempo permettere la riduzione della galoppante inflazione postbellica, il controllo del corretto movimento del circolo creditizio e la stabilizzazione della lira in una fase in cui i nuovi alleati di Roma, Stati Uniti in testa, erano disposti a scommettere sul rilancio del Paese con iniziative quali il Piano Marshall. Il primo successo della diplomazia economica della Prima Repubblica avvenne in occasione della visita oltre Atlantico di De Gasperi del 1947. Un viaggio che segnò una profonda discontinuità nell’immagine dell’Italia agli occhi delle potenze vincitrici e dell’autocoscienza del Paese, che incassata la fiducia di cui aveva bisogno potè programmare con maggiore serenità la strategia della ricostruzione.

De Gasperi per la trasferta oltre Atlantico si circondò delle migliori competenze che il sistema-Paese offriva in termini di conoscenze economico-finanziarie. La Banca d’Italia diretta da Luigi Einaudi inviò il suo Direttore Generale Donato Menichella, mentre della squadra facevano parte anche il Ministro per il Commercio estero, Pietro Campilli e il giovane Guido Carli, all’epoca Direttore dell’Ufficio Italiano Cambi. In particolare Menichella, foggiano classe 1896, dal 1934 al 1944 direttore generale dell’Iri di Beneduce, era uno dei massimi esperti delle necessità che il sistema pubblico aveva per poter ripartire dopo le devastazioni belliche. Al Paese servivano al tempo stesso stabilità e investimenti: un obiettivo che poteva essere conseguito solo facendo legittimare il nuovo assetto politico-economico agli occhi della superpotenza e ottenendo un volano per promuovere investimenti strategici dagli aiuti americani.

“Menichella, Campilli e Carli erano tra i massimi esperti dell’economia reale, del sistema finanziario italiano e del sistema monetario internazionale, di cui il Paese poteva disporre”, ha scritto Il Sole 24 Ore, e il risultato della missione andò oltre ogni aspettativa: “a Washington la delegazione intavolò importantissime e alquanto difficili trattative con la Casa Bianca e con la Export-Import Bank, al fine di ricevere un credito di 100 milioni di dollari” precedente l’attivazione del Piano Marshall che fu utilizzato per la ricostruzione infrastrutturale del Paese, fondamentale per ridare coesione a un Paese che doveva ripartire da zero.

Quando nel 1948 Einaudi fu eletto Presidente della Repubblica Menichella acquisì il ruolo di governatore e avviò quella “genealogia episcopale” del potere italiano che nei salotti di Via Nazionale attraverso Carli e Carlo Azeglio Ciampi è giunta fino ai giorni nostri con Mario Draghi. Il banchiere di Biccari conquistò ulteriori riconoscimenti in termini di diplomazia economica permettendo che la Cassa per il Mezzogiorno divenisse, nel 1950, la destinataria dei fondi di coesione della Banca Mondiale e lasciando la carica nel 1960 dopo che la lira era stata insignita di un “Oscar” dal Financial Times per la stabilità conseguita negli anni del boom economico.

Da Menichella a Carli

Guido Carli fu il naturale successore di Menichella alla guida di Via Nazionale e dovette, nel corso del suo mandato durato quindici anni, affrontare diverse sfide che misero nuovamente alla prova la capacità del Paese di fare diplomazia economica: dall’esaurimento della spinta del boom economico alla crisi petrolifera del 1973. Carli era guidato da una visione liberale, non liberista, attenta anche ad aspetti di solidarietà e di coesione sociale. In alcuni momenti era stato pessimista, come in occasione della nazionalizzazione delle imprese elettriche a inizio Anni Sessanta e come sarà negli ultimi anni di vita e nel periodo della firma del Trattato di Maastricht, sulla capacità della classe dirigente italiana di rafforzare il suo ruolo in campo internazionale. Ma la sua visione non trascurò mai l’interesse nazionale in tempi complessi.

Carli promosse a fine Anni Sessanta in asse con gli studiosi e i decisori americani il primo modello econometrico di Via Nazionale, alla cui realizzazione contribuirono economisti di peso come il futuro Nobel Franco Modigliani e giovani studiosi come l’allora poco più che trentenne Paolo Savona. Soprattutto, parlava poche volte ma con autorevolezza perorando in continuazione una strategia internazionale di distensione sul fronte delle tensioni valutarie, specie dopo la fine del sistema di Bretton Woods nel 1971. Nel 1974, come ha ricordato l’allora governatore Antonio Fazio in un evento romano del 2003 celebrato per ricordare Carli a dieci anni dalla morte, il banchiere nativo di Brescia in occasione dell’assemblea del Fondo monetario dell’ottobre  “avanzò una proposta volta a riutilizzare i “petrodollari” che eccedevano i bisogni di sviluppo dei paesi arabi dell’Opec. Una sorta di “piano Marshall su scala mondiale come egli stesso la definì. In questi e altri progetti che si riferivano ai rapporti internazionali si può percepire una visione ante litteram dei fenomeni della globalizzazione finanziaria”.

Le mosse di Mediobanca

Il tema dello sviluppo economico inclusivo era molto considerato da una classe dirigente che aveva contribuito a sperimentare l’ascesa del Paese dopo la guerra partendo da una situazione oltremodo complessa. E che dopo l’ascesa dell’Italia a ritrovata potenza economica e industriale guardava con attenzione alla conquista di nuovi spazi d’influenza e nuovi mercati attraverso la promozione sistemica delle sue eccellenze.

Mediobanca, sul fronte interno “salotto buono” della finanza milanese, fu uno dei principali strumenti utilizzati per questo obiettivo. Bilanciando la partecipazione al suo interno da parte delle banche d’interesse nazionale con un legame profondo con l’impresa privata o a partecipazione pubblica. La banca diretta da Mattioli prima e da Enrico Cuccia poi operò da un lato accogliendo nel suo capitale e nelle sue finanze il sostegno di grandi gruppi stranieri, come le americane Lazard e Lehman Brothers e diverse banche europee, contribuendo così a costruire un solido asse occidentale di legami imprenditoriali e personali e dall’altro promuovendo l’espansione commerciale in termini di produzione e investimenti delle aziende partner.

Eni, Fiat, Olivetti Finmeccanica, Montecatini, Necchi, Pirelli furono solo alcuni dei più noti tra i partner di Mediobanca che contribuì, a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, a promuovere la conquista italiana dei nuovi mercati del continente africano. Dando nuova proiezione alla diplomazia economica del Paese in nome della dottrina keynesia della collaborazione tra paesi arretrati e paesi avanzati, capitale pubblico e capitale privato. Come ha scritto il professor Giovanni Farese nel saggio Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971, edito dall’Archivio storico Mediobanca Vincenzo Maranghi, le attività del gruppo estese dal Senegal all’Etiopia, dall’Algeria all’Angola furono la dimostrazione di una ““vocazione africana”, che si manifestò subito, già negli anni Quaranta. In questo contesto, particolare rilievo assume la dimensione della guerra fredda e l’obiettivo di evitare che l’assistenza tecnica e finanziaria ai paesi della decolonizzazione venga fornita dall’Unione sovietica e dai paesi suoi satelliti e, più in generale, che l’Africa cada nella sua sfera di influenza”. Dalle dighe sullo Zambesi all’impegno per la ricostruzione del Congo, Mediobanca portò l’Italia ovunque nel continente che conquistava dopo la seconda guerra mondiale una tormentata e complessa indipendenza. Ponendo le basi per una presenza che oggigiorno dura e di cui il Paese deve tenere conto, facendo sistema.

La diplomazia economica è un’arte che l’Italia, dopo la Prima Repubblica, ha dimenticato. Schiacciata tra l’europeismo lirico e l’abbandono alla legge dei mercati da un lato e le crisi sistemiche dall’altro, si è persa la comprensione del forte ruolo politico-strategico della promozione degli interessi economico-finanziari del sistema Paese. Che non sono solo una questione di investimenti o commercio, ma anche un determinante fondamentale dell’interesse nazionale. La visione prospettica di Carli e Menichella (ricerca di un nuovo consenso in campo euro-occidentale) e la lezione pioneristica di Mediobanca sulla conquista di nuovi mercati e la collaborazione pubblico-privata possono rappresentare spunti fondamentali per il Paese che oggi deve immaginare una nuova ricostruzione.

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