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La recente perdita di un cacciabombardiere britannico F-35B precipitato nel Mediterraneo Orientale ha innescato una “corsa” per recuperarne il relitto da parte di Regno Unito e Stati Uniti.

La ricostruzione della dinamica dell’incidente ha permesso di stabilirne le cause: sembra che un “coperchio” di protezione dei motori del caccia a decollo corto e atterraggio verticale sia stato lasciato in posizione per una dimenticanza del personale di bordo della Hms Queen Elizabeth, e che il pilota se ne sia accorto solo durante la fase di decollo non avendo altra scelta se non quella di lanciarsi e così far piombare il velivolo in mare. Subito è partita una vera e propria “corsa” per cercare di recuperarne il relitto: Regno Unito e Stati Uniti hanno mobilitato le loro unità navali da recupero in profondità. In particolare, come abbiamo già avuto modo di ricordare, gli Usa hanno i mezzi necessari nella base di Rota, in Spagna, molto più vicino al luogo dello schianto rispetto a quelli britannici. Sono state mobilitate tutte le forze Nato disponibili nell’area: sappiamo di una fregata tedesca e di un pattugliatore spagnolo, in attesa che arrivino le forze statunitensi con mezzi sottomarini e Rov che serviranno a recuperare il caccia.

Quanto sta accadendo nel Mediterraneo Orientale nelle acque a sudest di Creta ci permette di fare un tuffo nella storia (più o meno recente) per raccontare di come queste vere e proprie “gare” al recupero di relitti siano una costante quando si tratta di materiale “pregiato”. Prima però è utile dare un quadro giuridico, che forse non tutti conoscono: semplificando (di molto), per la legge del mare se un bene, un relitto, o altro oggetto abbandonato, si trova in acque internazionali, la sua proprietà diventa del Paese che lo ritrova per primo.

Il caso dell’atomica in mare

Certamente è intuibile che in caso di smarrimento di armi nucleari, intendendo con queste le bombe a caduta libera, missili balistici affondati coi sottomarini che li trasportavano o siluri a testata atomica che per errore vengono “persi”, ci si affretti a recuperarle.

L’elenco degli armamenti atomici persi nelle acque dei mari e degli oceani è lungo, ma vale la pena ricordare quanto successo sempre nel Mediterraneo nel 1966, quando un bombardiere strategico statunitense B-52G, con a bordo il suo carico di ordigni termonucleari perché impegnato in quei costanti voli di pattugliamento armato per essere pronti ad intervenire in caso di conflitto atomico, precipitò in pezzi in mare dopo essere entrato in collisione con un’aerocisterna KC-135 durante un rifornimento in volo.

Le 4 bombe B28 si sparsero su un’area piuttosto vasta insieme ai resti del bombardiere: tre finirono a terra, in prossimità di Palomares – una cittadina spagnola – mentre una finì in mare. L’incidente era avvenuto il 17 gennaio, ed il 22 l’U.S. Air Force chiese aiuto all’U.S. Navy per recuperare l’ordigno mancante: non si poteva permettere che finisse ripescato da “altri”, in particolare dai sovietici.

La Marina Usa schierò un imponente dispositivo di recupero composto da 28 unità navali di diverso tipo e tonnellaggio, che solo il 17 marzo riuscì a individuare la bomba in un fondale di 880 metri. Un primo tentativo fallì, e si dovette aspettare solo fino al 7 aprile per vederla recuperata dall’Uss Petrel, un’unità di recupero sottomarini.

Sollevamenti “profondi”

Facciamo ora un salto di 8 anni e passiamo al 1974, cambiando totalmente zona di globo. L’8 agosto di quell’anno la “nave mineraria” Glomar Explorer sollevò dal fondale dell’Oceano Pacifico a nord-ovest delle Hawaii parte del K-129, un sottomarino sovietico della classe Golf II (Project 629A per i russi) da 2700 tonnellate di dislocamento.

L’unità sovietica era affondata l’8 marzo del 1968 insieme ai tre missili balistici intercontinentali tipo SS-N-5 “Serb” che trasportava. La Glomar Explorer fu costruita a tempo di record (un anno dall’impostazione al varo) anche per poter partecipare a questa operazione segreta di recupero, denominata Progetto Azorian che prese il via nel 1974. Il sottomarino statunitense tipo Ssgn (lanciamissili da crociera) Uss Halibut individuò il sito del relitto a una profondità di 5029 metri in un punto a 2500 chilometri circa a nordovest dell’arcipelago hawaiano, e a quel punto la Cia elaborò un piano per recuperare il sottomarino sovietico.

Per farlo sarebbe stato necessario utilizzare una grande nave, che avrebbe sicuramente messo in allarme Mosca, quindi venne sviluppata un’elaborata storia di copertura che coinvolse anche il miliardario Howard Hughes. Scienziati e imprenditori minerari avevano da tempo visto il potenziale enorme delle estrazioni dai fondali oceanici: si tratta dei ben noti noduli di magnesio che si accumulano sul fondo, quindi una nave costruita ad hoc, con tecnologia avveniristica, tipica dello stile sopra le righe di Hughes, avrebbe destato pochi sospetti.

Il recupero, come detto, avvenne nel 1974 ma la Glomar Explorer, col suo “artiglio”, riuscì solamente a catturare una parte del sottomarino sovietico: un guasto meccanico alle ganasce di sollevamento provocò la rottura dello scafo e due terzi del battello sovietico, compresa la parte più “pregiata” rappresentata dalla sezione missili, riaffondò senza poter più essere recuperata.

In ogni caso la sezione recuperata conteneva due siluri a carica nucleare e alcune macchine crittografiche, insieme ai corpi di sei marinai sovietici, a cui fu data una sepoltura formale e filmata in mare. Le notizie però trapelarono in fretta, e uno scoop del Los Angeles Times pose fine alla carriera “spionistica” della Glomar Explorer.

Tomcat fuoribordo!

Facendo un ulteriore salto avanti nel tempo, arriviamo al 1976. Stavolta siamo nell’Oceano Atlantico, circa 100 miglia nautiche a nord-ovest di Scapa Flow (Scozia), nel bel mezzo del Giuk Gap, quel braccio di mare compreso tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito che è passaggio obbligato per la Flotta Rossa del Nord per poter raggiungere le vastità oceaniche.

Il 14 settembre la portaerei Uss John F. Kennedy (CV-67) stava prendendo parte a un’esercitazione Nato chiamata “Teamwork 76”. La portaerei a bordo ha gli F-14A Tomcat che si occupano della difesa dell’unità navale e del suo gruppo d’attacco. Un aereo nuovo, entrato in servizio da poco (settembre 1974).

Uno di essi stava rullando sul ponte di volo verso la catapulta numero 3 per esservi agganciato e lanciato, ma qualcosa andò storto: improvvisamente i motori del caccia ruggirono inspiegabilmente a piena potenza, sebbene la manetta fosse sul minimo. Il pilota provò a premere i freni, ma l’aereo, stridendo sotto la spinta dei due potentissimi motori TF30-P-414A, si avvicinò inesorabilmente verso gli altri aerei parcheggiati, e il pilota non poté far altro che sterzare verso il bordo del ponte di volo.

Il Tomcat, dopo aver danneggiato due altri velivoli con l’ala, finì dritto in mare, mentre pilota e Rio (ufficiale al radar) si catapultavano fuori coi loro seggiolini eiettabili.

Quell’F-14, però, non solo era l’ultimo ritrovato della tecnologia statunitense, ma aveva a bordo i nuovissimi missili Aria-Aria a lungo raggio Aim-54 Phoenix. Qualcosa su cui i sovietici avrebbero volentieri messo le mani in quanto, insieme al radar del Tomcat, ne facevano un’arma temibile per l’intercettazione.

Un incrociatore classe Kresta della Marina Sovietica stava seguendo la flotta, e quando questo si avvicinò, era chiaro che i sovietici avevano registrato la posizione dell’incidente. Conoscendo le capacità di recupero in acque profonde dell’Urss, gli Stati Uniti diedero il via a una corsa per recuperare l’aereo prima che alcune delle tecnologie più sensibili finissero nelle mani di Mosca.

Il caccia si trovava in un fondale di circa 560 metri, e recuperare l’aereo per intero e il singolo missile Phoenix che aveva a bordo non sarebbe stato facile. La Marina degli Stati Uniti sorvegliò costantemente il sito dell’incidente 24 ore su 24 coi suoi assetti aerei. Mobilitando risorse private e degli alleati (la Norvegia e il Regno Unito), con l’ausilio di un sommergibile radiocomandato senza equipaggio chiamato Curv-III e di un batiscafo (l’Nr-1), più di un mese dopo, il 21 ottobre, trovò il relitto del caccia più lontano di dove doveva essere: i sovietici avevano tentato, con una rete, di trascinarlo via, fallendo però nel loro intento.

In superficie l’attività era febbrile: la flotta sovietica di recupero era arrivata, e si stava pericolosamente avvicinando al punto del relitto generando episodi di tensione dati dalla vicinanza tra le unità navali dei due schieramenti opposti. Gli americani decisero, data la difficoltà nel recupero, di trascinare il velivolo sul fondale sino ad acque meno profonde, mentre il batiscafo Nr-1 si mise alla ricerca del prezioso missile, trovandolo dopo poco e agganciandolo al suo scafo, per trasferirlo, nottetempo, a un’unità appoggio di nascosto dai sovietici.

Ricordiamo anche come la scoperta nel 1985 del relitto del Titanic, da parte della squadra di Robert Ballard, in realtà si deve a una missione segreta dell’U.S. Navy per cercare di trovare e recuperare i resti di due sottomarini nucleari andati perduti: l’Uss Scorpion e l’Uss Thresher.

I sensori, l’avionica, nonché gli stessi materiali di cui è fatto l’F-35, lo rendono appetibile per qualsiasi potenza che voglia impossessarsi della tecnologia per i velivoli di quinta generazione, oppure anche solo per “dare uno sguardo” approfondito a un assetto avversario e quindi poter sviluppare le adeguate contromisure. Ecco perché oggi, nel Mediterraneo Orientale, stiamo assistendo a un’altra “gara” per raggiungere un relitto giacente in fondo al mare.

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