Donald Trump aveva già rotto diverse convenzioni politiche americane, prima tra tutti l’elezione di un individuo che prima di arrivare alla Casa Bianca non aveva mai ricoperto importanti cariche politiche o militari. Adesso è diventato il primo ex presidente a venire incriminato. Molti prima di lui avevano sfiorato il processo, basti pensare a Richard Nixon, che si salvò solo in virtù della grazia concessa dal suo successore Gerald Ford.

Trump però non ha niente di tutto questo. E peraltro il reato per il quale è stato incriminato sarebbe avvenuto prima della presidenza. Non è questa la sede per parlare di quanto avvenuto, né di quanto siano solide le accuse del procuratore distrettuale Alvin Bragg, tantomeno delle sue convinzioni politiche vicine alla sinistra democratica. Bragg ha rotto un precedente lungo più di 230 anni sull’inviolabilità legaledi un presidente, durante e dopo il suo mandato. Analizzando bene le pieghe della storia americana però, c’è stato un presidente incriminato, detenuto e infine amnistiato. Parliamo di Jefferson Davis, capo degli Stati Confederati d’America, quella formazione politica nata dalla forzosa secessione degli stati schiavisti del Sud in seguito all’elezione del primo presidente repubblicano Abraham Lincoln nel 1860.

La storia del presidente confedereato

Davis venne scelto dal Congresso provvisorio della Confederazione con un criterio semplice: si trattava di uno degli esponenti più autorevoli del Senato per lo stato del Mississippi, che aveva servito con onore nella guerra contro il Messico come colonnello dal 1846 al 1848 e che era stato segretario alla Guerra nell’amministrazione democratica di Franklin Pierce. Non solo: Davis aveva sempre consigliato moderazione ai suoi colleghi e pertanto sembrava una scelta logica. Durante la guerra non fu così: spesso agì d’impulso, favorendo gli amici e ostacolando i suoi critici, in contrasto stridente con la leadership di Lincoln che invece seppe servirsi anche delle competenze dei suoi rivali. Per questo e per tanti altri motivi, Davis il 2 aprile evacuò la capitale del Sud, Richmond, chiedendo ai suoi uomini di prepararsi a una resistenza a oltranza e potenzialmente a una guerriglia contro le truppe unioniste.

Consiglio rigettato dal suo comandante militare Robert Lee, che si arrese il 9 aprile chiedendo ai suoi uomini di andare verso la riconciliazione. Davis tentò invece di fuggire, cercando di unirsi all’unico esercito sudista ancora integro, che si trovava in Texas, ma dopo varie peripezie venne catturato il 9 maggio a Irwinville, in Georgia, con l’accusa pendente sulla sua testa di essere il mandante dell’assassinio di Abraham Lincoln, avvenuto il 14 aprile. Davis, che al momento dell’arresto indossava una strana tela impermeabile, venne descritto come “fuggitivo vestito da donna” sui giornali del Nord. Davis da statista era di fatto un criminale.

Dalla detenzione al processo

Venne portato a Fort Monroe, in Virginia il 22 maggio. La detenzione fu inizialmente durissima: doveva stare su una brandina con delle catene alle caviglie, guardato a vista da due militari 24 ore al giorno. L’opinione pubblica del Sud, già provata dalla sconfitta, vide con sfavore la detenzione così dura dell’ex presidente e i giornali dell’ex Confederazione ricevettero decine di lettere che lamentavano la condizione afflittiva di quello che veniva considerato uno statista al pari del defunto Abraham Lincoln. Cinque giorni dopo venne liberato dalle catene e dopo due mesi rimase senza guardie, potendosi anche permettere di ricevere lettere e ricevette anche una foto da parte del Papa Pio IX nel mese di dicembre.

A Davis fu poi consentito di vivere agli arresti domiciliari in un appartamento di quattro stanze, insieme con la moglie Varina. Allora l’amministrazione di Andrew Johnson non sapeva come comportarsi con Davis. Accusarlo di crimini di guerra? Dell’assassinio di Lincoln? Oppure del maltrattamento dei prigionieri di guerra dell’esercito statunitense? Per nessuna di queste accuse c’erano prove a sufficienza. Così il Procuratore Generale James Speed decise di procedere non con un processo militare, ma con un processo civile per tradimento.

Nel giugno 1866, la Camera dei Rappresentanti votò per mandare Davis a processo. Sorprendentemente, Davis accettò di buon grado. Lui che era noto per la sua oratoria sui banchi del Senato, voleva dimostrare quanto affermato nel suo discorso d’addio il 21 gennaio. Pur non essendo d’accordo con una secessione affrettata, ne riconosceva la legittimità. E voleva dimostrare che, dopo la scelta del Mississippi di secedere, lui non aveva tradito l’America perché cessava di essere un cittadino americano. E quindi l’istituzione degli Stati Confederati era avvenuta secondo il dettato costituzionale. Questo creò un serio imbarazzo per l’amministrazione di Johnson, che già si trovava sotto attacco da parte dell’ala sinistra del Partito Repubblicano, che avrebbe voluto l’istituzione di un processo contro l’intera leadership confederata e non soltanto contro Davis.

L’amnistia e il simbolo sudista

A complicare la cosa, la sede del processo dove sarebbe avvenuto il reato di tradimento: Richmond, ex capitale, dove la giuria estratta avrebbe potuto avere forti simpatie per Davis. Anche per questo Davis fu liberato su cauzione il 13 maggio 1867. I centomila dollari richiesti furono raccolti da prominenti uomini del Nord, come l’editore repubblicano Horace Greeley e l’industriale newyorchese Cornelius Vanderbilt. Il processo rimase sospeso fino al Natale 1868, quando Johnson decise di amnistiare tutti gli ex confederati, ivi compreso Davis, che venne scagionato definitivamente nel febbraio 1869. Pur non arrivando mai davanti alla Corte, Davis divenne un martire della causa sudista, definita come Lost Cause della Confederazione dagli storici.

Negli anni successivi non si riconobbe mai più negli Stati Uniti d’America, pur abbandonando la retorica incendiaria che aveva adottato negli ultimi mesi in carica da presidente. Davis morì anni dopo da uomo libero, nel 1889, divenuto un simbolo del vecchio Sud ex confederato, che con la graduale soppressione del voto agli afroamericani e l’istituzione della segregazione razziale stava abbandonando le conquiste successive alla guerra. Un Sud molto diverso rispetto a quello per cui si era combattuto. Anche Donald Trump, a modo suo, pensa di essere un martire di una giusta causa. Probabilmente questo concetto è rafforzato da un senso della spettacolarizzazione mediatica proprio dell’ex presidente. Rimane indubbio però che il parallelismo con Davis risuona in quel pezzo di America che pensa che Trump sia un martire di una giustizia politicizzata.

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