14 marzo 1962, Mediterraneo occidentale. La motonave Heida, un vecchio cargo di 2300 tonnellate battente bandiera liberiana, arranca nel mare in tempesta. A bordo venti marinai di cui 19 italiani — veneti, triestini, marchigiani, siciliani, pugliesi —e un gallese. Alle 10 di mattina, all’altezza dell’isola tunisina di La Galite, il comandante Federico Agostinelli contatta, a Venezia, l’agente marittimo Giuseppe Patella (verosimilmente il vero armatore della nave) per confermare rotta e tempi di navigazione. Tutto bene, stop. Poi il silenzio. Totale. La Heida scompare nel nulla. Per sei giorni nessuno sembra accorgersene e solo il 20 marzo — sei giorni dopo — iniziano le ricerche. Senza successo. Nessun superstite, nessun corpo, nessun rottame, nessuna chiazza di nafta. L’ennesima tragedia del mare. O forse no.
Andiamo con ordine. In quell’ultimo scorcio di quel lontano inverno si stava consumando l’ultimo atto della guerra d’Algeria. Un conflitto durissimo tra la Francia e gli indipendentisti arabi, uno scontro iniziato nell’autunno 1954 e protrattosi, tra massacri e attentati, per quasi otto anni. Poi, dopo lungo meditare il presidente Charles de Gaulle, sfidando l’opposizione di gran parte dell’esercito e del popolo dei coloni (i pieds noires), decise infine di “girare la pagina” e concedere gradualmente l’indipendenza. Gli accordi di Evian del 19 marzo 1962, un azzardo politico su cui ancor oggi la Francia si dilania e si incattivisce.
Di certo vi è un dato storico, fisso e inoppugnabile: sino all’indomani della proclamazione del cessate il fuoco l’intero dispositivo militare transalpino rimase pienamente operativo e in special modo la Marina, impegnata a vigilare sul traffico d’armi alimentato da vecchi cargo, navi scassate e spendibili (come l’Heida, appunto), e destinato ai combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale. Un grande affare.
A rifornire i ribelli erano in molti: mercanti d’armi d’ogni nazionalità, satelliti del blocco sovietico, Jugoslavia titoista, Egitto nasseriano ma anche l’Italia, o meglio l’Eni di Enrico Mattei, presidente dell’Eni e campione della stagione del “neo-atlantismo”, una delle fasi più vivaci e contradditorie della politica estera italiana cui s’intrecciavano disorganicamente più fattori: “nazionalismo mediterraneo”, cripto neutralismo, atmosfere risorgimentali ed echi mussoliniani. Convinti di poter recuperare all’Italia una centralità nel Mare Interno, Mattei e i principali protagonisti del tempo — il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, il segretario della Dc Amintore Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira — decisero di giocare, in chiave anti britannica e anti francese, la carta del movimento anticolonialista arabo. Dall’Egitto all’Algeria. Da Suez al Sahara.
Una storia romanzesca. Casualmente, nel dicembre 1958, Mattei incontrò, tornando dalla Cina via Unione Sovietica, una delegazione del GPRA (Governo provvisorio repubblica algerina). L’aereo su cui viaggiavano ambedue le missioni fu costretto per le pessime condizioni atmosferiche ad una lunga sosta a Omsk in Siberia; in quei noiosi giorni di attesa forzata il presidente del “Cane a sei zampe”, fiutando l’odore del petrolio e del gas algerino, simpattizzò con gli indipendentisti e assicurò loro, con l’appoggio felpato del governo di Roma, una robusta solidarietà: fondi, appoggio mediatico, rifugi sicuri, addestramento militare e armi, tante armi. Una circostanza che irritò fortemente i francesi e i loro servizi segreti. Da qui l’inizio di una parallela, silenziosa ma letale guerra segreta tra Parigi, Roma e l’Eni. Un duello che si concluse soltanto con la ancora molto, molto misteriosa morte di Mattei nel cielo di Bascapè il 27 ottobre 1962.
Ma torniamo all’Heida e ai suoi marinai. Sfortunatamente, proprio a pochi giorni prima della tregua, la nave si ritrovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il bastimento, come nel tempo hanno ricostruito Accursio Graffeo, caparbio nipote di uno degli scomparsi, e il giornalista Nicola papa —autori di un libro inchiesta Heida, ultimo messaggio 10.00 N807 — qualcosa andò storto. All’insaputa dell’equipaggio (sul comandante e l’armatore rimane un punto di domanda) la nave era uno dei trasporti utilizzati per il traffico d’armi dall’Italia al Nord Africa e molto probabilmente l’Heida e i suoi uomini furono fermati, sequestrati e fatti scomparire “dalle autorità francesi come messaggio occulto, ma inequivocabile, allo Stato Italiano perché si attivasse nel far desistere la sua compagnia petrolifera dal fornire armi agli insorti. A suffragare questa ipotesi è stata riportata la testimonianza di un triestino, padre di uno dei marinai scomparsi, il quale disse all’epoca di aver parlato con un suo conoscente giovane ufficiale della Marina Militare di nome Fulvio Martini il quale prestava allora servizio presso il S.I.O.S. Marina e che divenne in seguito capo del S.I.S.MI. Sempre secondo quanto detto dal signore triestino, l’ufficiale gli confidò che l’equipaggio era salvo, ma che per “gravi motivi di sicurezza” non poteva fare il nome del luogo in cui si trovava, confermando inoltre che il figlio del conoscente era salvo”.
Speranze, illusioni e poi ancora una volta il nulla. I naufraghi, nonostante qualche flebile indizio, furono evaporati, sparirono. Della nave (ancor oggi ) non vi è nessun ritrovamento, nessuna traccia sui fondali. Di certo vi è solo il silenzio tombale dello Stato italiano. Nell’estate del ’63 il Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, a margine di un incontro con i parenti dei marittimi scomparsi, rispose con una criptica frase: “Per venti persone non si può fare una guerra”. Segreti di Stato. Sipario. Dopo sessant’anni vi sono dei marinai italiani che chiedono ancora giustizia.