Uno degli aforismi più celebri del premier britannico Winston Churchillprotagonista dell’epopea britannica della prima metà del Novecento e della vittoria nella seconda guerra mondiale, è il detto secondo cui “gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Il detto è spesso accostato a un secco giudizio nei confronti della condotta italiana nel secondo conflitto mondiale, invero confliggente con diverse concessioni dell’onore delle armi a esponenti di punta delle malandate armate mandate da Benito Mussolini a combattere una guerra impari, come accaduto nei confronti dei marò protagonisti dell’impresa di Alessandria o dei militari della Folgore immolatisi ad El Alamein.

Meno conosciuto è il versante calcistico di questo aforisma, ora più che mai attuale mentre ci si avvicina alla prima sfida tra la nazionale italiane e quella inglese valevole per l’assegnazione di un titolo nella prossima finale dell’Europeo. Pensando agli italiani che affrontano le partite di calcio come se fossero guerre Churchill aveva in mente un episodio ben preciso, entrato nella storia del calcio, sempre pronta a rinnovarsi sulla scia dell’epica: la “battaglia di Highbury” del 1934.

Due filosofie calcistiche a confronto

Nel novembre 1934 la nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo, laureatasi campione del mondo nella seconda edizione della Coppa Rimet ospitata nei mesi precedenti, si ritrovò al cospetto dell’Inghilterra in quella che formalmente era una partita amichevole ma, di fatto, venne ritenuta una gara “spareggio” per decretare quale fosse la migliore squadra di calcio al mondo.

Ritenendo il suo sistema calcistico superiore a quello del resto dei Paesi europei e dell’emergente mondo sudamericano e avendo rotto con la Fifa nel 1927 l’Inghilterra aveva infatti disertato le prime due edizioni della Coppa Rimet (1930 e 1934) e avrebbe finito per non partecipare anche a quella del 1938, in cui l’Italia replicò il successo di quattro anni prima. Nella loro torre d’avorio, gli inglesi rivendicavano il grado di unici maestri del calcio e la superiorità del loro approccio tattico basato sul “sistema”, il cosiddetto modulo WM, un 3-4-3 formalmente schierato come un 3-2-2-3 che permetteva alla squadra di incentrare il gioco sul possesso palla e sul dominio del campo. Ideatore del “sistema” era Herbert Chapman, scomparso all’inizio del 1934 a 55 anni dopo aver condotto l’Arsenal, prestigiosa squadra londinese, a una serie di successi che l’avevano resa la squadra più in vista dei tempi. Tanto da alimentare con sette giocatori su undici la nazionale che, in omaggio ai “Gunners”, avrebbe ospitato l’Italia di Pozzo proprio nel loro terreno di casa, lo stadio londinese di Highbury.

Sull’altra parte della barricata vi era l’Italia. Fresca vincitrice di un Mondiale che la propaganda del regime fascista aveva celebrato come un trionfo personale ma che era stato conquistato eliminando, dopo una passeggiata al primo turno con gli Stati Uniti (travolti 7-1), le squadre più in vista del panorama continentale: ai quarti di finale la Spagna del celebre portiere Zamora, in semifinale l’Austria guidata dall’attaccante Matthias Sindelar e, in finale, la temibile Cecoslovacchia nel pieno della generazione d’oro del calcio boemo. Guidata in campo da Giuseppe Meazza, forte dell’apporto dei talentuosi oriundi Raimundo Orsi ed Enrique Guaita, l’Italia di Pozzo giocava impostando la sua azione sul cosiddetto “metodo”, un 2-3-2-3 “risultatista” che univa una difesa simile a un catenaccio ante litteram a azioni di contropiede.

La battaglia di Highbury

Due visioni di calcio completamente divergenti, due approcci psicologici al mondo del pallone agli antipodi, la nobiltà di nascita contro quella conquistata sul campo si confrontavano in quel freddo e nebbioso 14 novembre 1934, giorno della partita. Italia e Inghilterra esprimevano due sistemi calcistici diversi e iniziavano a essere agli antipodi anche in altri, ben più complessi, campi. Londra non era ancora la “Perfida Albione” della retorica mussoliniana, ma iniziavano a manifestarsi le frizioni e le incomprensioni che un anno dopo, nel contesto dell’invasione italiana dell’Etiopia, avrebbero portato alle sanzioni commerciali contro Roma e al deterioramento di un rapporto che sarebbe proseguito fino alla dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940.

La partita che ispirò Churchill aveva dunque una posta in palio ben più ampia dell’apparente connotazione di gara amichevole. In un campo appesantito dall’umidità e dal freddo gli inglesi imposero fin dall’inizio un gioco maschio. Il portiere italiano Ceresoli neutralizzò dopo un minuto un calcio di rigore, avvisaglia della tempesta che i “maestri” intendevano scatenare sui campioni del mondo. Luisito Monti, centrocampista italiano, ebbe l’alluce sinistro fatturato in uno scontro col centravanti avversario Ted Drake al sesto minuto e fu di fatto escluso dalla partita (non erano ancora ammesse le sostituzioni). Tra l’ottavo e il dodicesimo minuto, sommersa dall’intensità del gioco inglese, l’Italia rischiò il naufragio subendo ben tre reti. Una doppietta dell’ala Eric Brook, con una rete direttamente da calcio di punizione, e un gol dello stesso Drake resero la situazione per l’Italia drammatica: sotto di tre reti, in dieci uomini, incalzati dal tifo di 50mila tifosi di casa che chiedevano all’Inghilterra di insistere, gli uomini di Pozzo si trovarono di fronte al rischio di un vero e proprio naufragio.

Lo shock fu però, in un certo senso, salutare per gli azzurri di Pozzo, che iniziarono a rispondere colpo su colpo. Il catenaccio italiano si riorganizzò, il gioco duro degli inglesi fu ricambiato, il terzino Eddie Hapgood ebbe una durissima lesione al naso e tra interventi di contenimento, falli duri e contrasti arditi sotto la pioggia e la nebbia inglesi la partita si trasformò in un rodeo.

Gli azzurri riuscirono a non subire ulteriori reti nel corso del primo tempo e furono spronati dal capitano Attilio Ferraris, interno destro che in patria aveva fatto molto discutere per il sorprendente passaggio dalla Roma alla Lazio nei mesi precedenti. Le cronache del tempo raccontano che Ferraris, negli spogliatoi, spronò i compagni di squadra con romana veracità: “Dalla lotta chi desiste fa una fine molto triste, chi desiste dalla lotta è ‘n gran fijo de ‘na mignotta!”. Vera o no che sia questa storia, la cosa certa è che nella ripresa l’Italia concretizzò una vera e propria prova di tenacia. Il centrocampo italiano si riorganizzò, le iniziative inglesi furono rintuzzate e si avviò con precisione il metodo catenaccio e contropiede di Pozzo. Una doppietta di Meazza, a mezz’ora dalla fine, accorciò le distanze. Il risultato non sarebbe più cambiato, nonostante una serie di attacchi furiosi dell’Italia e un innalzamento della tensione da parte dei “maestri”. L’Italia di Pozzo perse 3-2 ad Highbury, uscendo tra gli applausi del pubblico in una partita che sarebbe passata alla storia.  La stampa inglese celebrò quelli che il radiocronista Niccolò Carosio definì i “Leoni di Highbury” e anche in Italia il regime fascista volle applaudire a una sconfitta che fu raccontata come una vittoria morale.

Churchill smentito dai fatti

Churchill non poteva non pensare a questa occasione epica, che segnò la storia del calcio tra le due guerre, pronunciando il famoso aforisma. La realtà dei fatti, negli anni successivi, avrebbe però più volte smentito le dichiarazioni del vecchio leone dell’Impero sulle sconfitte italiane con gli inglesi. Nel secondo dopoguerra, amichevoli escluse, gli inglesi sono riusciti a sconfiggere l’Italia in gare ufficiali in un’unica occasione, nelle qualificazioni al Mondiale 1978, in un girone peraltro vinto dagli azzurri. L’Italia battè gli inglesi nella gara d’andata della medesima tornata, agli Europei del 1980, nella finale per il terzo posto del Mondiale 1990, nella corsa alle qualificazioni al Mondiale 1998, ai quarti di finale degli Europei 2012, nella fase a gironi del Mondiale 2014.  Nessuna di queste sfide ha però raggiunto nella memoria collettiva il peso e il valore dell’epica sfida di Highbury del 1934. Fino al redde rationem di Wembley che assegnerà Euro 2020.