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Storia /

“Siamo a Lhasa, capitale del Tibet; è il 6 gennaio 1717. Nella sala del trono avanza un italiano. È giovane, prestante, umile (però a modo suo, con un non che di fiero e di gagliardo nel portamento), ha lo sguardo di uomo intelligentissimo, cui nulla sfugge. Chi era mai questo straordinario italiano il quale con tanta naturalezza e semplicità presentava a Lhabzang Khan, sovrano del Tibet, un libro in versi tibetani, scritto di suo pugno? Era il patrizio pistoiese Ippolito Desideri, uomo di energia e vigore fuori dal comune, di segnalati coraggio e generosità”.  Così il grande orientalista e antropologo Fosco Maraini descriveva uno dei momenti centrali della straordinaria (quanto dimenticata…) impresa del primo esploratore “moderno” italiano, Ippolito Desideri. Ecco la sua storia.

Nato nel 1684, appena sedicenne l’ardimentoso pistoiese entrò come novizio nella Compagnia di Gesù dove si distinse negli studi al punto che nel 1712, all’indomani della sua ordinazione sacerdotale, venne scelto dai reverendi padri per una missione considerata praticamente impossibile: stabilire una missione gesuitica nel lontanissimo Tibet, un mondo misterioso appena sfiorato dagli europei.

Al tempo nulla si sapeva del territorio, della e lingua e della sua religione ma si favoleggiava di comunità cristiane disperse o di un regno del mitico “Prete Gianni”. Ipotesi incerte e fantasiose ma sufficienti per convincere il toscano a partire verso l’ignoto. Un viaggio lunghissimo: Genova, Lisbona, l’Atlantico e l’Oceano Indiano, Goa, allora centro politico e militare dell’India portoghese, poi Delhi, Agra, il Ladakh e, infine, il 18 marzo 1716, dopo quattro anni di traversie e fatiche, l’agognata Lhasa.

Una volta arrivato a destinazione Desideri fu ricevuto dal re Lhabzang Khan, al quale espose con assoluta sincerità lo scopo della sua missione: propagare il Vangelo e convertire gli abitanti del “Tetto del mondo” al cattolicesimo.  Per tutta risposta l’incuriosito e assai tollerante sovrano invitò il gesuita ad approfondire le sue conoscenze sul buddhismo e sulla cultura locale. Il missionario ringraziò l’ospite ed iniziò immediatamente ad impadronirsi dell’idioma locale. Come si evince dalle sue lettere si trattò di uno studio furibondo e faticosissimo: “È incredibile l’ardor che concepii di applicarmi con tutto lo sforzo… a uno studio ben fondato di quella lingua. Per tal fine sin all’ultimo giorno della mia dimora in quel regno, presi questo tenore che continuai per lo spazio di quasi sei anni, cioè di studiar da mattina a sera, e per farlo più comodamente differivo il pranzo a notte, sostenendomi fra giorno col bever del cià (ossia tè al burro di yak, non proprio una delizia…, ndr) che manipolato a quell’usanza è di grand’alimento”.

Appresa l’ostica lingua (ricordiamo, sempre senza dizionari o grammatiche) il missionario decise di penetrare i segreti dei monaci buddhisti: “Per tal fine mi posi di tutto proposito a leggere e scrutinare con ogni studio i libri principali di quella setta. Per tal fine da varie perite persone andavo indagando meglio l’origini, i riti ed opinioni di questa setta”.

Il risultato fu un libro in versi tibetani L’aurora indica il sole scritto in forma dialogica fra “Il padre cristiano che spiega la religione pura e vera all’uomo dotto che cerca la pura verità” presentata al re nell’udienza sopra descritta da Maraini. Lhabzang Khan apprezzò lo sforzo di Desideri e gli consigliò benevolmente di continuare nei suoi studi. Non a torto. Come nota argutamente Enzo Gualtieri Bargiacchi, curatore nel 2017 a Pistoia della grande mostra La rivelazione del Tibet, “le considerazioni di Desideri tenevano conto solo della scorza superficiale del pensiero buddhista” ed erano ancora insufficienti per sostenere un dibattito con i dotti lama.

Il cocciuto gesuita non si scoraggiò. Anzi. Desideri si rinchiuse prima in una e poi in un’altra lamaseria (vere e proprie università teologiche) per immergersi nel complesso mondo dei monaci. Voleva capire, comprendere una cultura antica e una religione terribilmente articolata (solo il Canone del Buddhismo tibetano è composto da oltre 5mila testi, compresi in due raccolte e introdotte dall’opera di Tsongkphapa, il fondatore della scuola dei “gelugpa”). Uno sforzo immane che negli anni si concretizzò in diversi scritti in lingua tibetana che ancor oggi sorprendono gli studiosi per la loro profondità e raffinatezza.  Non a caso Mairaini paragona Desideri a “Marco Polo, un Cristoforo Colombo dello spirito”.

Nell’attesa dell’agognato confronto teologico il missionario compì numerosi viaggi nel Tibet sud-orientale, nel bacino dello Tsangpo e del Subansiri, visitò le regioni di Kongpo, Nang e Loro e si avvicinò all’attuale confine con l’India dove, nel versante meridionale himalayano, vivevano popolazioni aborigene chiamati Lopa dai tibetani. Nel frattempo il re dei mongoli zungari Tsewang Arabtan, invase il Paese e sconfisse, uccise re Lajang Khan e saccheggiò Lhasa. I cinesi, che consideravano ormai da tempo quei territori un loro protettorato, il 24 settembre 1720 fecero ritorno a Lhasa e sbaragliarono agevolmente le truppe mongole.

Normalizzata la situazione, Desideri si convinse che fosse arrivato il gran momento e si preparò ad affrontare i sapienti locali; purtroppo non aveva fatto i conti con le gelosie dell’ordine dei cappuccini, anch’essi ansiosi di evangelizzare il Tibet.

Paradossalmente furono proprio i poco amichevoli confratelli, assai insofferenti del suo stile e della sua cultura, i primi responsabili della chiusura della sua lunga missione. Il 10 gennaio 1721 un ordine scritto di Michelangelo Tamburini, preposito generale dei gesuiti, gli impose di lasciare immediatamente il Tibet. Un colpo durissimo per il pistoiese ma da buon gesuita, seppur malvolentieri, obbedì. Del resto “perinde ac cadaver” è il motto della Compagnia di Gesù.

Dopo un travagliato viaggio il 23 gennaio 1728 il toscano torno a Roma e cercò di convincere i superiori del valore dei suoi studi e sulla possibile evangelizzazione del Tibet. Nulla da fare. La Compagnia – troppo potente, troppo invasiva e troppo colta – era ormai malvista dalla curia romana e invisa ai potenti di tutt’Europa; i vertici temevano (come poi accadde nel 1773) la dissoluzione dell’ordine e cercarono una mediazione con Propaganda Fide, la potente autorità vaticana per le missioni oltremare. Nel segno del realismo politico e del pragmatismo – due esercizi ben noti ai gesuiti d’ogni tempo -, i padri rinunciarono ad ogni ulteriore espansione in Asia e tutta la documentazione del missionario compresa la preziosa “Relazione de’ viaggi all’Indie e al Thibet” – un capolavoro letterario, teologico e geografico – venne segretata e sepolta negli archivi. Il 13 aprile 1733 lo sfinito Desideri rese l’anima al Signore. Amen.

Eppure la storia di Ippolito non finisce qui. Consapevole dell’importanza del suo lavoro, una volta compreso che i suoi manoscritti non sarebbero stati pubblicati, Desideri fece pervenire una copia a suo fratello Giuseppe. Dopo un lungo oblio le carte furono riscoperte nell’Ottocento da Gherardo Nerucci nel palazzo del bibliofilo pistoiese Filippo Rossi Cassigoli. Stranamente, nonostante il forte interesse degli studiosi e degli editori italiani, l’assai avido collezionista si rifiutò pervicacemente di consegnare la documentazione e preferì venderne una copia alla Haklutyt Society di Londra, un’associazione geografica ben collegata ai vertici dell’impero britannico.

Gli inglesi esaminarono attentamente il lavoro di Desideri ma non lo pubblicarono. Perché? Al tempo il Regno Unito, padrone assoluto del subcontinente indiano, era impegnato nella micidiale partita con la Russia zarista per il dominio dell’Asia centrale e, come scrive Bargiacchi, i minuziosi contenuti della Relazione “potevano rivelare elementi informativi di carattere militare, certamente utili in quel Great game che si stava delineando. La Relazione si trovò così ad essere prima offuscata dalle contese tra gesuiti e cappuccini, poi oggetto di interessi economici da parte di Rossi Cassigoli e in ultimo immersa in un non meglio chiarito gioco di attenzioni da parte inglese”.

Nel 1890, dopo la morte del proprietario, l’opera fu acquisita dalla Biblioteca Nazionale di Firenze ma la prima edizione definitiva e integrale del Resoconto uscì solo nel 1954-1956 grazie all’impegno dello storico triestino Luciano Petec. Da allora l’opera costituisce una fonte fondamentale per gli orientalisti. Padre Desideri può riposare in pace.

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