Il 2023 è l’anno del centenario della Repubblica di Turchia inaugurata da Mustafa Kemal Ataturk come “erede” dell’Impero Ottomano in discontinuità nazionalista e laicista rispetto alla Sublime Porta e oggi plasmata da Recep Tayyip Erdogan come versione aggiornata del sultanato, nazione ponte tra Europa e Asia.
Erdogan di fronte al mito di Ataturk
Il secolo turco è il secolo in cui la Turchia ha acquisito coscienza storica e geopolitica, diventando un attore cardinale nell’ordine internazionale; è il secolo in cui Ankara è stata una capitale cruciale del campo atlantico e in cui, prima in nome del nazionalismo laico e dell’anticomunismo, poi seguendo la terna neottomanesimo-panturchismo-panturanismo, ha perseguito in modo strumentale i suoi interessi. Il secolo turco è stato il secolo in cui, come i sovrani delle Vite Parallele di Svetonio, le ideologie di fondo sostanziate dalle visioni di Ataturk e Erdogan si sono confrontate, spesso contrastate, in ultima istanza fuse in un tutt’uno. In nome di una Repubblica nata, prima dopo secoli, come Stato dei Turchi per i Turchi e ritornata a essere Impero. Oggi protagonista dei maggiori scenari internazionali.
Nella retorica politica occidentale si tende spesso a banalizzare contrapponendo un Ataturk illuminato, laico e occidentalista a un Erdogan oscurantista, retrogrado, aggressivo fuori dai confini nazionali. Va detto, però, che Ataturk, veterano della Grande Guerra plasmato dalle battaglie di Gallipoli contro l’Intesa e dalla guerra civile turca, fu l’uomo dell’ultima cacciata di armeni e greci dal territorio nazionale e un leader – comprensibilmente – dal potere pressoché assoluto nella nazione di cui era Padre della Patria. Si doveva ricostruire lo Stato, sanare le ferite che la caduta dell’Impero aveva prodotto, recuperare ciò che era salvabile dell’ideologia nazionalista dei Giovani Turchi: la laicité alla turca apparve lo strumento per rafforzare, in quest’ottica, il potere politico.
Erdogan, a suo modo, è sì un tribuno dell’Islam politico più spinto, ma anche e soprattutto l’ultimo grande leader nazionale turco. Dalla Gagauzia all’Ungheria, dal Kazakistan al subcontinente indiano, rivendica con orgoglio qualsiasi continuità tra entità nazionali e substatuali e l’eredità culturale dei turchi di un tempo. “Si tratta di creare miti in paesi in cui una cultura patrimoniale è profondamente radicata e il potere viene trasferito da una generazione all’altra”, ha scritto il portale turco Ahval. “Ataturk è un mito per milioni di persone e ciò che Erdogan aspira a fare è imporre un mito su se stesso, erodendo così l’altro. Per lo meno spera di rendere il mito di Ataturk secondario nella mentalità collettiva”.
Il ritorno di un impero
Ataturk è stato il leader venerato come padre della moderna Turchia perché vincitore della guerra civile, invertitore dell’assedio straniero all’Anatolia, restauratore della concordia interna. Erdogan è disposto ad accettare questo dato di fatto, ma entra in polemica strumentale con il suo celebre predecessore laddove ritiene il recupero dell’Islam funzionale alla promozione dell’influenza turca e al consolidamento del suo potere.
Nel 1923, la Turchia era la figlia di un impero distrutto che si inseriva nel quadro delle rivoluzioni orientali segnate anche, negli anni precedenti, dalla fine degli imperi in Russia e Cina per mezzo di una (formale) emancipazione dal cordone ombelicale con la tradizione dei secoli precedenti. Nel 2023, la Turchia è invece un impero ambizioso, intento a proiettarsi dalla Siria all’Asia profonda, in dialogo attento e aspro con le tre grandi potenze dell’ordine globale (Russia, Cina, Usa), in perenne ambivalenza tra sviluppo economico e tensioni interne e intenta a recuperare i simboli della sua grandeur.
Il continuum si chiama interesse nazionale. Quell’interesse nazionale che ha portato la Turchia a essere amica dell’Urss di Lenin negli anni Venti, in buoni rapporti con l’Italia e la Germania negli anni Trenta, bastione anticomunista della Nato negli anni Quaranta. Sempre al centro di grandi giochi diplomatici e politici. Tra golpe, lotte interne allo Stato profondo tra filo-americani e nazionalisti e instabilità interna, la proiezione estera è sempre stata la via maestra per compattare la nazione: è successo a Cipro negli anni Settanta, succede oggi nell’estero vicino di Ankara.
Erdogan oltre il secolo turco
Erdogan, in quest’ottica, nella primavera 2023 alle elezioni presidenziali mira a consolidare il suo potere vincendo le elezioni presidenziali e proiettandosi nel primo anno del secondo secolo turco come nuovo Ataturk, trainato da quelle spinte identitarie della Turchia profonda che sono al centro del suo progetto politico. “La verità”, ha notato l’analista geopolitico Emanuel Pietrobon, “è che il progetto di occidentalizzazione di Ataturk è stato debole sin dai primordi e la sua politica ultra-laicista a base di chiusura delle moschee e di restrizione dell’islam alla sfera privata ha attratto numerose antipatie anche mentre era in vita”.
Quelle antipatie, “che sarebbe più corretto definire dei contraccolpi provenienti dalla Turchia profonda, si sono manifestate con vigore sempre maggiore nel dopo-Ataturk e hanno assunto diverse forme: colpi di stato, ascesa di politici anti-kemalisti, frequenti tensioni interetniche con la minoranza greca”, producendo dapprima il fenomeno di Necmettin Erbakan, tribuno religioso padrino politico di Erdogan e premier tra il 1996 e il 1997 prima del pronunciamiento dei militari contro la sua tenuta del potere, e in seguito il ciclone Erdogan. Abbattutosi gradualmente sul laicismo turco, sfruttando strumentalmente ogni posizione tattica tornasse utile per espandere il progetto di rifondazione dello Stato su basi imperiali e confessionali.
La Turchia del futuro
Insomma, in Turchia il presente è passato e il passato chiave di lettura del futuro. Un futuro fatto di sfide contingenti, legate principalmente ai gravi problemi economici e sociali interne, e di grandi ambizioni che una nazione tornata impero non può, giocoforza, non perseguire. Pena il morire d’ignavia. Erdogan lo sa: da abile giocatore d’azzardo, muove su più tavoli, nel conflitto ucraino come nelle Libie, sul gas come sulle Nuove vie della Seta, ricordando l’antico detto secondo cui “la Turchia non ha amici e nemici, ha solo interessi”.
E ora, consapevole della sua forza, può svelare al mondo il suo vero volto, fatto di complessità interne legate alla ripresa di un progetto storico bloccato da comprensibili forzature e ora pronto a riprendere la marcia. All’approssimarsi del compimento del secolo turco, nessuno negli scenari internazionali può fare a meno di considerare rilevante le posizioni di Ankara. E su questo risultato, siamo certi, Erdogan e Ataturk sarebbero ugualmente contenti.