Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver.
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Le immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce mostrano l’arrivo di Tito in Italia il 25 marzo 1971. Ad accoglierlo nella capitale ci sono i più importanti rappresentanti politici di allora: «Aeroporto di Ciampino. Per questo aereo sono in attesa tutte le più alte cariche dello Stato: da Saragat a Colombo a De Martino, Perti ni, Fanfani e Moro. L’aereo è un Caravelle ornato con stelle rosse. Viene da Belgrado, Jugoslavia, e porta un ospite che, per la prima volta, giunge in visita ufficiale in Italia. Un capo di Stato discusso ma singolare. L’ospite, eccolo, è Josip Broz, detto Tito, presidente della Repubblica federativa di Jugoslavia, un Paese di venti milioni di abitanti (serbi, sloveni e croati), una decina di minoranze etniche, tutte riconosciute. Unico Paese, insieme alla Cina, che si è dato il comunismo senza l’intervento delle armate sovietiche. Come risultato è stato scomunicato da Mosca nel ‘48, ma non ne ha certamente sofferto. Tito, 69 anni, incedere solenne per coprire gli acciacchi, è l’uomo che guida la Jugoslavia. Ha fatto la guerra contro i tedeschi trent’anni fa, ha detto no a Stalin meno di dieci anni dopo. A Belgrado è un leader indiscusso. Ha stemperato il comunismo degli anni ‘45 in un socialismo che significa due cose: maggiore libertà interna, indipendenza e neutralità sul piano internazionale. Certo, la Jugoslavia ha bisogno di amici, ma preferisce, e di molto, quelli europei, l’Italia soprattutto, che gli apre più di uno spiraglio sul Mec (il Mercato europeo comune, nda). Ha detto Tito, appena arrivato: “Questo incontro getta una prima pietra. È una pietra tolta dal piedistallo di Mosca. È una prima pietra che conta”».

Tito sorride mentre incontra i vertici politici del nostro Paese. Tutti lo accolgono a braccia aperte come se, dall’altra parte dell’Adriatico, non fosse successo nulla. Come se trecentomila esuli non avessero mai attraversato i confini per scampare alle violenze delle bande titine e per non vivere sotto il regime comunista. Come se gli oltre diecimila morti delle foibe non fossero mai esistiti.

I diari del Quirinale sono molto scarni: «Il presidente della Repubblica riceve in udienza. Visita di Stato del presidente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia e della Signora Broz (25-27 e 29 marzo 1971).

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CAUSALE: Reportage Goli Otok
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Impegni del presidente della Repubblica. Visita di Stato del presidente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia e della Signora Broz (25-27 marzo e 29 marzo 1971). Incontro privato a Castelporziano». A parlare sono le immagini (oltre trecentosessanta): il maresciallo (e consorte) vengono immortalati come delle star. Sono ben vestiti, e non può essere altrimenti. Durante i ricevimenti ufficiali, Tito e signora non disdegnano i simboli della borghesia, come lo smoking e l’abito lungo (e rigorosamente firmato). Non solo perché il cerimoniale lo prevede, ma perché Tito e Jovanka sono grandi amanti del lusso creato dal tanto vituperato mondo capitalista.

Grazie all’Album d’oro, una mostra organizzata a Belgrado nel 2011, è possibile ricostruire il guardaroba della coppia: Tito ha una grande collezione di cravatte firmate Dior, Yves Saint Laurent, Hermes, ma pure alcune realizzate da sarti di casa sua, che le disegnano per lui con i colori della Jugoslavia. In Italia, oltre ai cappelli, fa acquistare i guanti di cuoio Graziella, calzini finissimi e mutande di seta. Per i ricevimenti di gala all’estero sfoggia un frac su misura con papillon bianco e, per le serate più “mondane”, ha una sfilza di smoking. Come cappotti ama gli eleganti Chesterfield britannici. E non si separa mai dal vizio dei sigari cubani. Dallo Shah di Persia, all’imperatore Hailé Selassié, alla regina Elisabetta, l’ex capo partigiano ama non sfigurare.

A Belgrado, nel 1957, Simone Signoret, lo definisce «un gentleman molto raffinato (…) con un diamante sulla cravatta». Tito, però, non ha problemi a passare dai panni del “dandy” a quello del Maresciallo in alta uniforme o cacciatore di tutte le latitudini. La manìa per le divise inventate per lui, con grandi alamari, decorazioni varie e colori a tono, gli servono come “arma” psicologica o diplomatica. Ad un suo bio grafo confessa che «in un Paese contadino c’è grande rispetto per il leader in battaglia e le sue divise». Quando accoglie i russi a Belgrado nel 1955, durante una visita di riconciliazione, il New York Times scrive che «la sua sfavillante divisa blu con alamari d’oro» fa un figurone di fronte ai «grigi completi dei leader sovietici».

La signora Broz, che ha ben presto dimenticato la vita spartana da partigiana, non è da meno. Non disdegna i completi Chanel mentre Dior custodisce il busto di Jovanka nel suo atelier di Parigi. Lo stesso fa Klara Rothschild a Budapest. Del resto, Dusica Knezevic, curatrice della mostra sull’abbigliamento della coppia al vertice jugoslavo spiega in un’intervista al Giornale: «Jovanka, dopo il matrimonio con Tito, cambiò radicalmente. Nuove eccezionali acconciature, il trucco (a cominciare dal rossetto di Dior), moltissimi gioielli ed una serie di ottimi vestiti. Era l’unica in Jugoslavia a quel tempo che portava dei cappellini».

Jovanka ama le tinte leggere in contrasto con i dettagli forti colorati di violetto, rosso, giallo o arancio. Scarpe di lusso e borsette in pelle di serpente sono un altro vezzo. In qualche maniera prova a coniare una specie di stile alla Hollywood in salsa socialista: la sua eleganza, i gioielli, le acconciature ed il trucco si mescolano alle uniformi guascone del marito, che sa fare anche il damerino. Soprattutto agli occhi del mondo esterno, perché in patria, con Tito al potere, gran parte delle fotografie della mostra e dello sfavillante guardaroba sono rimasti un tabù.

*Estratto di Verità infoibate (Signs publishing), di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto