“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio. 

“Era un uomo di grande umanità, umile e un vero amico del popolo congolese. Amava il Congo e i congolesi. Dentro di lui c’era un grande calore umano e un grande rispetto per le persone. Nutrivamo grande stima nei suoi confronti. La sua memoria resterà indelebile nei nostri cuori”. E poi: “Dalle stelle da cui ci sta guardando ora, potrà essere fiero se noi porteremo avanti i sogni per i quali è vissuto e morto”. È con queste parole che il Premio Nobel Denis Mukwege ha ricordato Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo che ha perso la vita in seguito a un attacco condotto da alcuni ribelli nella provincia congolese del Nord Kivu soltanto 9 mesi fa.

Luca Attanasio, nato a Varese nel 1977, uno dei più giovani ambasciatori italiani nel mondo, la mattina del 22 febbraio 2021 sta percorrendo la Route Nationale 2, la direttrice che mette in comunicazione Goma, il capoluogo della regione del Nord Kivu, con le aree settentrionali della provincia, per verificare la distribuzione del cibo nelle scuole di Rutshuru. Il convoglio, composto da un pick delle Nazioni Unite e da uno del World Food Programme, viaggia senza scorta, il vulcano Nyragongo troneggia all’orizzonte, la savana lentamente lascia spazio alle colline e nell’impenetrabile florilegio di piante, boschi e sterpaglie, intanto sono annidati decine di ribelli, sbandati, e disertori che nascosti nella vegetazione, pianificano attacchi, programmano sequestri, preparano le armi e passano all’azione.

All’improvviso un posto di blocco nei pressi della cittadina di Kanyamahoro. Un gruppo di uomini armati dapprima posiziona dei tronchi sulla strada, poi alza i kalashnikov, i miliziani sparano contro le macchine e uccidono l’autista Mustapha Milambo. Alcuni rangers del Parco del Virunga, insieme ad alcuni regolari dell’esercito di Kinshasa, si precipitano sulla scena dell’accaduto. L’arrivo dei militari provoca uno scontro a fuoco tra i banditi e i governativi e in pochi minuti, questioni di istanti, dalle remote regioni del Congo sopraggiunge una notizia che pietrifica il mondo intero: l’ambasciatore italiano Luca Attanasio di 43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci di 31 e l’autista Mustapha Milambo sono stati assassinati.

L’esecutivo di Kinshasa, da subito, punta il dito contro i ribelli hutu dell’FDLR, poi, in seguito alla smentita da parte dei rivoluzionari, spiega che si è trattato di un tentativo di rapimento finito drammaticamente. Il governo congolese apre un’indagine, lo stesso fanno l’UNDSS (United Nations Department of Safety and Security) e la magistratura italiana che invia sul campo un nucleo dei ROS. Ad oggi però, nonostante il lavoro degli investigatori, a una verità su quanto successo ancora non si è arrivati, tutto rimane ondivago, permeato da ipotesi, supposizioni e punti di domanda senza risposta.

L’unica certezza è quella dell’evidenza di una tragedia pubblica e privata che ha visto l’ambasciatore Attanasio, diplomatico italiano, padre di famiglia e marito, morire insieme a un militare dei Carabinieri di soli 30 anni, in quelle terre che lui amava e per le quali stava lavorando e dedicando tutta la sua professionalità.

Di nuovo Italia e Congo, due Paesi apparentemente lontani, si trovano quindi vicini, uniti nel dolore e travolti dal gorgo delle maledizioni. Perché, sempre in Congo, nel 1960, è stato assassinato dai ribelli il Viceconsole italiano Tito Spoglia e un anno dopo a Kindu, 13 aviatori italiani, che facevano parte della missione dei caschi blu, sono stati barbaramente uccisi da un gruppo di insorti.

La storia si ripete, di nuovo e, a unire Roma con Kinshasa, oggi come ieri, è un anatema, un filo rosso, sottile ma evidente, netto e tranchant; proprio come i confini del Congo, che non limitano soltanto una nazione ma sono uno scisma fisico e temporale del nostro presente, una presenza di coscienza di un mondo altro al di fuori di questo mondo nostro.

Lo spartiacque del Congo

Come si arriva a uno dei numerosi punti di frontiera che puntellano la Regione dei Grandi Laghi, immediatamente, si ha infatti la percezione di essere sospesi su uno spartiacque. Da un lato l’Africa che, uscita da conflitti e crisi umanitarie, ha intrapreso un percorso di crescita economica e sviluppo; dall’altro lato il Congo che invece travolge, investe e disorienta ancora prima che vi si acceda.

Si osservano, appena arrivati al confine, le colonne di cittadini che lasciano il Paese per cercare riparo nell’accogliente terra di Kampala. All’istante, una volta giunti alla frontiera, si viene accerchiati dal bailamme dei venditori di chincagliere e, nel momento stesso in cui ci si incammina per l’ispezione dei bagagli, si è immediatamente scrutati senza sosta dagli sguardi indagatori dei funzionari governativi. Solo dopo aver atteso, con ascetica pazienza, che i controlli doganali siano stati effettuati, ecco che la Repubblica Democratica del Congo apre le sue porte.

Pigri militari intabarrati in divise madide di sudore, nascosti in garrite e aggrappati ai loro kalashnikov, sollevano la sbarra che dà accesso al cuore dell’Africa; l’universo Congo si svela e da quel momento la terra dei minerali e della miseria endemica, dei bambini soldato e dei missionari eroi, degli stupri di guerra e del premio Nobel che lotta contro la violenza sulle donne, delle ribellioni orfane dei ribelli e dei costruttori di pace mai domi nella loro missione, travolge e trascina dentro di sé.

L’odore di carbone nell’aria, la nebbia sottile che si solleva dalle montagne, la terra nera, vulcanica, che contrasta con il verde di una natura feroce e matrigna che tutto circonda, colpiscono nell’istante stesso in cui si varca la frontiera. E sebbene siano anni ormai che ci rechiamo in questo lacerto di Africa centrale per raccontarne conflitti ed epidemie, condanne e remissioni, mai siamo riusciti ad abituarci a questo scontro frontale, a questa calata verso un precipizio di contraddizioni e di dicotomie, di tragedie e salvezze. E tra poco, di nuovo, dovremo affrontare tutto questo, perchè a breve ci recheremo per InsideOver nelle province orientali del Paese della regione dei Grandi Laghi per raccontare alcuni dei problemi più gravi e iconici della nostra contemporaneità che qui si stanno consumando lontano dai riflettori dei media internazionali: l’avanzata dello jihadismo, lo sfruttamento illegale del sottosuolo, la distruzione delle foreste e il divampare costante di nuove zoonosi.

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CAUSALE: Reportage Congo
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Abbiamo deciso di tornare nell’ex colonia belga per descrivere la lotta che sta conducendo il governo di Kinshasa contro i gruppi islamisti dell’Adf, la formazione legata all’Isis che, in Congo, ha dato vita all’Iscap, la Provincia dell’Africa Centrale del Califfato. Sfruttando l’assenza di infrastrutture, la povertà assoluta, la porosità delle frontiere e la situazione di instabilità che perdura da decenni, le forze islamiste hanno avviato una guerriglia che attraverso rapimenti, massacri di civili e attacchi indiscriminati ha condannato la popolazione locale a vivere in uno stato di terrore assoluto. Nelle regioni orientali del Paese è stata proclamata a maggio dell’anno scorso la legge marziale; un estremo provvedimento adottato dal governo del presidente Thsisekedi per cercare di contrastare le milizie ribelli e porre un freno all’insicurezza che travolge la zona.

Tutte le autorità civili in Ituri e Nord Kivu sono state sostituite dalle autorità militari e proveremo a seguire quindi gli uomini dell’esercito congolese, le FARDC, nella loro guerra contro le formazioni irregolari e per la pacificazione del territorio. Non ci limiteremo a raccontare solo l’esercito di Kinshsasa ma anche il contingente di interposizione dei Caschi Blu dell’Onu che, dopo una missione decennale, probabilmente verrà smobilitato nel breve termine e quindi è quanto mai necessario ora interrogarsi e verificare, direttamente sul campo, soprattutto dopo quanto successo in Afghanistan, quali conseguenze potrebbe avere un ritiro di una forza di pace da un’area così instabile come la regione orientale del Congo.

Nell’est del Congo non ci sono solo i gruppi islamisti, le formazioni ribelli sono più di cento e il motivo per cui questa terra è infettata da un coacervo di sigle irregolari è uno solo: la ricchezza del sottosuolo. Dal momento che non possono essere raccontati gli effetti senza prima aver analizzato le cause dei fenomeni, cercheremo di andare a descrivere l’origine della dannazione dell’est del Congo: i giacimenti minerari. Proveremo quindi a calarci nelle miniere di Rubaya dove, per una manciata di dollari al giorno, decine di uomini consumano le proprie vite estraendo quintali del minerale più prezioso che esista: il coltan.

Ribelli e regolari, materie prime e minatori, sono tutti i fattori di un’equazione che ha come risultato finale la dannazione della popolazione civile. Le genti dell’est del Congo vivono sotto assedio della guerra, delle malattie e della miseria più assoluta. Dall’inizio del 2020 i civili uccisi per mano delle milizie armate sono stati oltre 2000 e gli sfollati 2milioni, inoltre il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo. Ci spingeremo allora nei villaggi assediati e nei campi profughi per raccontare il dramma che sta travolgendo uomini, donne e bambini, e poi cercheremo di raccontare anche gli sforzi di chi sta cercando di trovare una soluzione a una tragedia che troppo spesso è stata dipinta come irrisolvibile e ontologica.

Il Congo sanguina ed è nostro dovere, in quanto giornalisti, non girarci dall’altra parte ma raccontare quanto sta avvenendo immergendoci, ancora una volta, in questa terra di estremismi e di contrasti dove se da un lato è tangibile e concreto il concetto di morte allo stesso tempo, in nessun luogo come il Congo, si può conoscere e comprendere la dimensione più alta del valore della parola vita racchiusa in storie come quella di Luca Attanasio: ambasciatore, marito, padre e per sempre, uomo di pace.