Acquisito fortunosamente il suo impero africano, re Leopoldo II si mise subito all’opera e una cortina di mistero avvolse da subito l’État Indipéndent du Congo. Il ferreo controllo sui traffici e la severa selezione dei quadri coloniali — con l’eccezione dei suoi fedelissimi, Leopoldo preferì utilizzare una coorte multinazionale di contabili, tecnici (tra cui s’arruolò anche lo scrittore anglo-polacco Joseph Conrad) e tanti soldati disoccupati —, infastidirono la tranquilla borghesia belga e i suoi terminali politici. Per di più, nonostante l’enfasi dei circoli colonialisti di Bruxelles e Anversa, la precarietà economica del regno leopoldino inquietò una volta di più imprenditori, banche, azionisti. I creditori del re. Non a torto.
Come annota Henri Wesseling, i primi anni dell’EIC furono difficili: “I problemi finanziari erano enormi. Leopoldo dovette nuovamente intervenire personalmente e ipotecò le sue onorificenze estere e le livree dei suoi lacchè e, non sapendo più a che santo votarsi, ridusse i propri pranzi a una sola portata. Ma non bastava. Il Belgio organizzò una lotteria. Non fu ancora sufficiente. Lo Stato belga dovette prestare denaro a Leopoldo. Il problema non si risolse neppure in quel modo. La gomma, infine, salvò lo Stato Libero. L’aumento della richiesta di gomma fece salire vertiginosamente i listini. La caccia alla red rubber nel Congo fornì finalmente i mezzi economici necessari. Ma questo capitolo portò a tali eccessi da diventare uno scandalo di dimensioni inaudite, uno dei maggiori scandali della storia coloniale moderna: le atrocità perpetrate nel Congo”.
La bonne affaire di Leopoldo ebbe un costo umano intollerabile. L’EIC chiuse ermeticamente le frontiere e incorporò tutte le terre non coltivate — circa il 95 per cento dell’immenso territorio — incamerandone tutte le risorse e le ricchezze naturali e i diritti di commercializzazione. Chiunque osasse (bianco o nero, poco importava) intraprendere una qualsiasi attività mercantile senza il consenso dei gabellieri governativi era considerato un ladro o un ricettatore. Allo stesso tempo, per valorizzare al massimo la colonia, gli agenti leopoldini instaurarono un durissimo regime di lavoro forzato — alla popolazione venne imposta una impot de cueillette, una tassa sul raccolto, fissata in denaro ma pagabile in natura — che trasformò presto l’État Indipéndent du Congo in uno spietato sistema concentrazionario. L’impero del silenzio.
Nel suo libro dedicato al colonialismo ottocentesco, Raymond F. Betts nota: “I risultati del lavoro coatto furono magnifici sul piano finanziario, poiché alla fine il re recuperò il denaro che aveva investito nel Congo come privata speculazione e ricavò inoltre ulteriori capitali per permettergli di soddisfare il suo gusto per le attrezzature turistiche sia in Riviera sia nella città di Ostende. I guadagni ottenuti da Leopoldo furono in proporzione inversa al benessere del popolo congolese: il numero di coloro che persero la vita è incalcolabile”.
Tra le conseguenze più agghiaccianti della rapace politica coloniale, — da sommare alle conseguenze delle campagne militari (le mantien de l’ordre), le epidemie, la malnutrizione e le carestie — vi fu infatti un impressionante calo demografico della popolazione indigena. Come annota Guy Vanthemsche: “Nei primi quattro decenni della presenza belga in Congo, il numero dei congolesi declina in modo spettacolare. Alcune regioni si spopolano. Ma qual’è il bilancio totale del fenomeno? Di certo, centinaia di migliaia, forse milioni di persone persero la vita dopo l’intrusione dei bianchi. Sfortunatamente non è possibile essere più esatti e la polemica attorno al numero “preciso” è inutile, poiché nessuno storico serio, belga o straniero, mette ormai in dubbio l’essenziale, ovvero l’orrore del regime di lavoro leopoldino”.
All’inizio del Novecento le ragioni dell’EIC iniziarono a vacillare. Una pesante campagna internazionale, promossa dalla stampa anglo-americana, mise sotto scacco l’intera costruzione congolese. I crudi reportages dell’americano George Williams e del britannico Edmund Morel, supportati dai rapporti del console inglese Roger Casement, scandalizzarono i lettori londinesi e statunitensi e, di conseguenza, le opinioni pubbliche europee. Leopoldo cercò di negare, controbattere; dietro alle inchieste giornalistiche e le campagne umanitarie, il sovrano intravedeva, non del tutto a torto, manovre albioniche e intrighi internazionali tesi a scardinare il suo, ormai troppo ambito, possedimento. Nel 1904, il re fu costretto ad aprire le porte del suo possedimento privato e istituire una commissione d’inchiesta internazionale. Un passo obbligato ma fatale. Al loro rientro i commissari confermarono, in termini prudenti ma inoppugnabili, gran parte degli abusi e degli orrori de l’Etat Indipéndent du Congo. Subitamente, il “padre padrone” del Congo divenne per ogni corte, governo, ambasciata e banca un personaggio indesiderato, impresentabile. I centri finanziari brussellesi sussultarono e la monarchia divenne nuovamente impopolare.
Con un ultimo guizzo di lucidità, l’ormai vecchio Leopoldo si convinse che l’unico modo per salvare il suo grande sogno era donarlo al piccolo Belgio: da qui la decisione di scaricare sui suoi poco amati sudditi l’ormai troppo pesante fardello africano. Il 18 dicembre 1908 — dopo un’estenuante trattativa che garantiva un lascito importante ai suoi eredi e certo che le caldaie di Laeken avessero inghiottito tutti i documenti dell’archivio dell’EIC — Sua Maestà donava allo Stato belga il suo lontano dominio. Il tempo di Lepoldo era finito. Un anno dopo, il 19 dicembre, il monarca si spense. Nell’agonia trovò la forza per sussurrare minaccioso al suo primo ministro: “Se mai cederete a chicchessia un pollice di terra congolese, il vostro re si leverà dalla tomba”. In tutta la sua lunga vita non aveva mai visto nemmeno un lembo del suo regno africano.