Quella fra Giappone e Stati Uniti è una delle storie di amore-odio più importanti delle relazioni internazionali. Odio, diffidenza e rancore prevalgono sull’amore e sulla fiducia, di fatto inesistenti, ma un collante elastico rende la loro relazione particolarmente resistente agli urti: la presenza di comuni nemici.

Legati da un’intesa adamantina, e dunque tanto dura quanto fragile, Giappone e Stati Uniti sono due potenze con un passato complicato, un presente instabile e un futuro incerto. Amici per forza, e nemici da sempre, sull’orizzonte della loro relazione tenuta insieme dal collante geopolitico pesa come un macigno un fattore, spesso, trascurato: lo spettro di Koza.

Tokyo non dimentica Kanagawa

Giappone e Stati Uniti sono due rivali, travestiti da amici, che abbisognano l’uno dell’altro per via di due ragioni rispondenti ai nomi di Cina e Russia. L’intero impianto strategico per il Pacifico occidentale di Washington, la cosiddetta catena di isole, non avrebbe senso senza il coinvolgimento di Tokyo. Perché la Corea del Sud contiene la Corea del Nord, Taiwan divide le due Cine, le Filippine sorvegliano il Mar Cinese Meridionale, ma è il Giappone la forza frenante che evita lo sfondamento dei russi nel Pacifico nordoccidentale e dei cinesi nella prima fascia della catena di isole.

Dall’intesa nippo-americana dipendono gli equilibri di potere nel Pacifico occidentale. Ma la loro intesa è fragile come un diamante. Perché il passato, in certe parti del mondo, è un ricordo che permea il presente. E il Giappone, come Stato e come popolo, non ha mai dimenticato l’imposizione della Convenzione di Kanagawa, gli attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki, l’occupazione del secondo dopoguerra, la denazificazione in salsa giapponese – emblematizzata dall’ignominiosa dedivinizzazione dell’Imperatore –, lo smantellamento delle forze armate e le guerre commerciali e industriali degli anni Ottanta e Novanta.

Il Giappone ha contezza del fatto che l’intesa obbligata con gli Stati Uniti sia un deterrente in grado di frenare le ambizioni regionali e i muscolarismi di Russia e Cina. Ma né l’occidentalizzazione né le convergenze geopolitiche hanno mai favorito lo sviluppo di un rapporto sincero, la scomparsa delle reciproche ostilità di fondo e l’estinzione delle pulsioni imperiali presso taluni ambienti vicini alle stanze dei bottoni di Tokyo.

Il malessere serpeggiante del Giappone profondo verso la percepita condizione di subalternità all’America non è mai stato capitalizzato politicamente da nessun partito, principalmente a causa delle pressioni della sovrastruttura, ma ha storicamente partorito fenomeni terroristici, dall’Armata rossa giapponese ad Aum Shinrikyo, ed esplode periodicamente in violenza. Parlare dei sentimenti del Giappone profondo equivale a raccontare la storia della rivolta di Koza.

Il contesto storico della ribellione di Koza

Giappone, 1970. L’occupazione militare è finita nel 1952, ma la prefettura di Okinawa continua a essere sotto sovranità degli Stati Uniti. Qui è dove si concentra il 70% di tutte le strutture militari americane nell’arcipelago giapponese, che sono state determinanti durante le guerre di Corea e del Vietnam, e gli abitanti sono esasperati. Alcuni, come i sostenitori del Ryūkyū Dokuritsu Undō, invocano persino la secessione dal Giappone. La fonte della loro rabbia sono gli Stati Uniti.

Quelle degli abitanti della prefettura di Okinawa sono grida nel deserto. I loro lamenti non sono ascoltati da nessuno, sebbene la situazione sia grave: i soldati statunitensi si rendono periodicamente protagonisti di incidenti, crimini ed efferatezze nei confronti della popolazione, dagli stupri ai furti, che restano impuniti per via delle esenzioni da loro godute in virtù del Trattato del 1960. Chiedono giustizia, ma nessuno sembra disposto a dargliela. Protestano, ma le forze dell’ordine sembrano dalla parte del governo. E il 20 dicembre 1970, dopo l’ennesimo episodio di cronaca nera, metteranno a ferro e fuoco Okinawa City.

La sollevazione

Koza, notte del 20 dicembre 1970. Un militare statunitense è alla guida di un’automobile nel quartiere a luci rosse della città. Ha bevuto oltre il dovuto, va più veloce del consentito, ed è in compagnia di tre commilitoni. Sono tutti e quattro in stato di ebrezza. La loro corsa terminerà su un okinawano.

Nel quartiere a luci rosse di Koza, a quell’ora, c’è quasi più gente che di giorno. Passanti e automobilisti hanno assistito la scena. Sono scioccati dal fatto che i quattro militari vogliano scappare. Li circondano, al grido di “basta assoluzioni”, innescando un parapiglia.

Sul luogo, in pochi minuti, sopraggiungono due volanti della polizia militare degli Stati Uniti. Non sono lì per calmare gli animi e ricostruire l’accaduto, ma per estrarre i soldati. Nel frattempo, altri rinforzi provenienti da una delle tante basi americane della prefettura si schiantano contro le vetture degli abitanti. Il parapiglia degenera in maxirissa.

Nell’arco di qualche ora dal primo incidente, mentre il cielo continua a essere buio, per le strade si stanno scontrando migliaia di persone. Cinquemila okinawani contro un migliaio di poliziotti, americani e giapponesi. È la notte dell’anarchia: più di settanta automobili e decine di negozi a fuoco a causa dell’ampio ricorso dei locali alle bottiglie incendiarie.

All’arrivo dell’alba, quando le violenze si sono allargate alla base aerea di Kadena – anch’essa gestita dalle forze armate statunitensi –, soltanto il dispiegamento di un dispositivo militare soverchiante, metà americano e metà giapponese, riuscirà a sedare la sollevazione. Bilancio finale: più di 80 arresti, oltre 80 feriti, un’ottantina di autovetture bruciate, una scuola distrutta dalle fiamme. Una ferita non rimarginabile.

Koza per sempre

La sollevazione di Koza avrebbe giocato un ruolo determinante nel ritorno della prefettura di Okinawa al Giappone, avvenuto nel 1972, e nel radicamento di un serpeggiante e silente antiamericanismo in ampi settori della società.

Complici gli atti di cronaca nera coinvolgenti il dispositivo militare nordamericano, i cui membri si sarebbero resi protagonisti di circa 6mila reati fra il 1972 e il 2019, dei quali almeno 350 stupri – trattasi di cifre notevoli considerato che la prefettura ospita mediamente 2mila-27mila soldati –, l’antiamericanismo è diventato un elemento integrante della peculiare identità di Okinawa. Anche perché quando il malcontento cala, qualcosa di sconvolgente accade e risveglia lo spettro di Koza – come quando, nel 1995, tre militari americani violentarono una dodicenne, innescando furibonde proteste.

Il caso della prefettura stranierizzata e abbandonata a se stessa, tetto riluttante di trentuno basi militari americane, che occupano il 15% del suo intero territorio, col tempo è diventato il caso di una nazione. Lo suggeriscono i sondaggi – i giapponesi hanno tendenzialmente una bassa stima degli americani, ritenuti egoisti e disonesti, e pensano che gli Stati Uniti siano una minaccia per il Giappone. Lo ricordano le periodiche proteste di massa contro la concentrazione militare americana nell’arcipelago – come quelle del 2016, estese da Okinawa a Tokyo. Lo evidenzia la pervasività dell’antiamericanismo nei prodotti della cultura pop nipponica. Lo dimostra l’assassinio di Shinzo Abe, vittima di quel Giappone profondo che non ha mai accettato di essere sottoposto all’America.

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