Il “continente nero” non fu l’unico miraggio degli esploratori italiani. L’Asia e in particolare le Indie orientali — Malesia, Borneo, Indonesia, Nuova Guinea: le terre del salgariano Sandokan — attirarono naturalisti come Odoardo Beccari, Luigi D’Alberti, Elio Modigliani ma anche inquieti protagonisti del Risorgimento come Nino Bixio (morto a Banda Aceh il 16 dicembre 1873) e viaggiatori “fai da te” come Giovanni Battista Cerruti, un altro personaggio straordinario quanto oggi dimenticato.
Ecco la sua storia. Nato a Varazze nel 1850, da giovanissimo iniziò a navigare sulle navi della sua famiglia e nel 1881 ottenne la patente di capitano di lungo corso. Attratto fatalmente dall’Oriente tentò la fortuna nella britannica Singapore e nell’Indonesia allora olandese inscatolando frutta esotica — da qui l’irridente soprannome di “capitan conserva” —, ma, nonostante un premio all’Esposizione di Torino del 1884 per i suoi ananas, l’azienda non prosperò. Anzi. Deluso dagli affari viaggiò a lungo tra il Siam e il Borneo e infine decise di scomparire nelle impenetrabili foreste Nias, un’isola a nord-ovest di Sumatra al tempo ancora quasi sconosciuta, popolata da cacciatori di teste, dominata da bizzarri rajà e punteggiata da grandiosi monumenti megalitici.
Nel corso degli anni Giovanni ogni tanto ritornava sulla costa per qualche piccolo commercio e talvolta per accompagnare qualche coraggioso scienziato — tra tutti Modigliani e l’austriaco von Brenner — nelle sue esplorazioni a Nias e dintorni. Nel 1891, dopo una lunga serie di peripezie, l’ardimentoso marinaio lasciò definitivamente l’isola e non sazio d’avventure s’inoltrò tra le tuns centrale alla ricerca di una tribù misteriosa, i Sakai (in realtà i Mai Darat), famosi come avvelenatori oltre che, a tempo perso, cacciatori di teste e cannibali. Una prospettiva non proprio benevola tanto che la sua scorta lo abbandonò appena varcati i confini della inospitale regione; rimasto solo Cerruti proseguì il cammino sino ad incontrare i temibili locali. E qui un insperato colpo di fortuna: una freccia colpì la fibbia della sua cintura rimbalzando nell’aria. Cerruti non perse la calma: si accese la pipa e attese il colpo mortale. Ma gli indigeni, impressionati dal “prodigio”, s’inginocchiarono e lo accolsero nel loro villaggio con tutti gli onori dovuti ad uno stregone o a una divinità e poco dopo lo elessero loro sovrano.
Il suo “regno” — una vicenda romanzesca che ricorda sia il Lord Jim e il Kurtz di Conrad o lo Yanez salgariano — si protrasse per ben 15 anni durante i quali Cerruti cercò di impiantare qualche piantagione di Havea ma ancora una volta senza molto successo. Più proficui furono gli studi sugli usi e i costumi dei suoi sudditi, in particolare sulla loro segreta arte dei veleni ricavati dalle piante e lavorati con meticolosa quanto micidiale abilità.
Da qui il titolo del suo libro di memorie: Nel paese dei veleni. Un bel lavoro come conferma questo passaggio: “Mi destai di soprassalto. Il principe mi bisbigliava all’orecchio delle parole d’allarme. Fui presto in piedi con la rivoltella pronta e scrutai nelle tenebre che ci avvolgevano. La notte era buia malgrado le stelle: Orione non diffondeva che un pallidissimo chiarore soltanto in qualche radura della foresta i cui alti silenzi erano rotti dallo strisciare lieve di qualche rettile sulle erbe e dal mormorio del vicino fiume. V’era della poesia che non si descrive in quel mistero di ombre e di fruscii che tradiscono la presenza di qualche cosa che vive intorno a voi e che forse vi minaccia e v’insidia senza che vi sia dato vedere e difendervi”.
La sua presenza finì però per infastidire i britannici, allora padroni della Malesia. Nonostante il governo coloniale gli avesse offerto l’ufficio di sovrintendente del paese dei Sakai, i rapaci mercanti albionici non apprezzarono affatto le ricerche geologiche di Cerruti nella zona. Partito alla ricerca dell’oro, il nostro aveva trovato invece consistenti giacimenti di stagno e wolframite che “stranamente” finirono, dopo una defatigante quanto vana diatriba processuale, tutti in mano inglese.
Nel 1906 Ceruti tornò in Italia per partecipare all’Esposizione internazionale di Milano, dove presentò il suo libro — un vero successo editoriale a cui seguirà nel 1907 Fra i cacciatori di teste dell’isola di Nias —, fondare la Società dell’Estremo Oriente, l’ennesima iniziativa imprenditoriale, e tenere qualche conferenza ottenendo un certo interesse dalla comunità scientifica ma nessun riconoscimento dal Regio governo. Ritornò in Patria nel 1912 in cerca di fondi per le sue attività e, dopo un breve soggiorno nella natia Varazze, s’imbarcò per nuovamente l’Oriente, per l’ultima avventura. Una peritonite lo fermò a Penang il 28 giugno 1914. Per sempre.