Dieci anni sono passati da quando il mondo volgeva lo sguardo verso il continente africano e celebrava la nascita del Sud Sudan. L’indipendenza del nuovo Paese dell’Africa, il 9 luglio 2011, veniva festeggiata non solo a Juba e tra i confini della nazione racchiusa tra il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda e la Repubblica Centrafricana, ma anche a livello internazionale. Il mondo intero infatti vedeva nella nascita del cinquantaquattresimo stato africano la fine di una guerra che durava da decenni e di una situazione che costringeva le genti del Sud Sudan a vivere oppresse, discriminate, escluse economicamente e segregate dalla popolazione di origine araba del nord e dai vertici di Khartoum.

L’autonomia e l’indipendenza sono state plaudite dai leader di tutti i Paesi del primo mondo e, da Tokyo a Washington, tutti i capi di stato si sono prodigati nel promettere aiuti e sostegni al neonato stato africano. Le parole però si sono infrante sul frangiflutti della realtà.

Quello che era stato battezzato come un sogno di pace si è tramutato in breve tempo in un nuovo incubo di guerra. Sebbene la comunità internazionale si sia impegnata nel costruire le infrastrutture di un Paese che usciva frantumato da una guerra civile inclemente e feroce, ciò che non è stato fatto e non è stato considerato, è che non erano assenti solo i sistemi basici del Paese, ma persistevano a mancare le fondamenta vere e proprie della nazione: la coesione nazionale, l’unità dei leader politici, la riconciliazione sociale e l’idea di cittadinanza. Così il più giovane stato africano ha catalizzato in sé gli errori e gli orrori che dopo le indipendenze degli anni ’60 si erano verificati in molti altri paesi del continente: tribalismo, nepotismo, furto di risorse pubbliche e autoritarismo, e la violenza ha infettato in breve tempo i gangli vitali della società sud sudanese e ha trascinato il Paese, in soli tre anni, in una guerra civile che ancor oggi, nonostante siano stati firmati dei fragili accordi di pace, prosegue a intermittenza.

South Sudan 2012
Giuba (Sud Sudan), le celebrazioni per il primo anniversario dell’indipendenza del Sudan del Sud

 

In questi giorni in cui si dovrebbe festeggiare l’anniversario della nascita di una nazione invece si assiste con impotenza all’ennesimo fallimento di uno stato africano che ,su una popolazione di 11milioni di abitanti, ne registra 4 milioni e mezzo nei campi profughi interni e in quelli dei paesi confinanti e ad oggi, secondo il Global Crisis Severity Index, il Sud Sudan risulta essere uno dei Paesi più instabili al mondo e le prospettive di una ripresa nel futuro prossimo sono al momento intangibili.

Per comprendere perché il Sud Sudan sia oggi tormentato da odio e crisi umanitarie bisogna riavvolgere il rocchetto della storia almeno sino agli anni sessanta e conoscere così alcune vicende storico e politiche e alcune parole chiave che sono determinanti per avere una visione chiara di ciò che è successo dalla metà del ‘900 sino ad oggi in questa regione africana.

La storia

Il Sud Sudan ha sempre fatto parte, sino al 2011, del Sudan, uno stato che, anche durante il periodo coloniale, ha avuto una storia alquanto travagliata e atipica rispetto agli altri paesi africani. E’ stato, questo Paese, nell’occhio di diverse potenze europee, ed, è qui, per l’esattezza a Fascioda, che si sono fronteggiati inglesi e francesi e si è rischiata una guerra aperta tra due eserciti coloniali. E’ questa terra bagnata dal Nilo ad essere stata una dei palcoscenici delle prime resistenze armate anticoloniali mosse da una forte componenti religiosa islamica, ed è sempre il Sudan ad aver avuto una forma coloniale unica essendo stato dalla fine del ‘900 sino al 1955 un protettorato anglo egiziano abitato da popolazioni islamiche e arabe nel nord e da gruppi etnici dell’Africa equatoriale e sub-sahariana nel sud.

La scoperta del petrolio

La divisione etnica e geografica ha sempre caratterizzato la storia di questa nazione tanto che già nel 1955, un anno prima dell’indipendenza del Paese, nelle regioni meridionali è nato un gruppo guerrigliero che rivendicava l’indipendenza del sud: il Movimento di resistenza del Sud Sudan (Ssrm nell’acronimo inglese). La guerra civile vera e propria però tra il nord e il sud è iniziata nel ’62 e solo nel ’69, quando i militari hanno portato al potere il colonnello Nimeiri che ha ascoltato le istanze autonomista delle genti del sud si è avuta la parvenza di una fine delle ostilità. Nel ’72 infatti, ad Addis Abeba, c’è stata la firma di un accordo di pace che ha sancito lo statuto di regione autonoma al Sud Sudan. Ma nel ’78 è successo un qualcosa che ha sparigliato le carte, ha annullato ogni accordo pregresso, ha infiammato avidità e corruzione e ha acceso gli istinti più brutali nelle leadership locali: nella regione autonoma del Sud Sudan sono stati rinvenuti giacimenti di petrolio.

La scoperta dell’ oro nero ha portato il colonnello Nimeiri a imporre la sharia in tutta la nazione e a revocare l’autonomia al sud. Una decisione che ha avuto il peso di una dichiarazione di guerra e infatti nel 1983, i partigiani del Sud Sudan hanno ripreso in mano le armi e, sotto la guida di John Garan, è nato l’SPLA (Sudan People Liberation Army), ed è iniziata la seconda guerra civile.

Nel 1989 il Paese è stato sconvolto da un altro colpo di stato, quello Omar El Bashir, uno dei dittatori più sanguinari della storia recente africana che rimarrà in carica per 30 anni e che proseguirà la sua guerra contro l’esercito indipendentista del sud.

Il cessate il fuoco

Una data importante, che porterà da lì a qualche anno alla separazione del Sud Sudan è il 2004 perchè il 7 gennaio di quell’anno è stato firmato un protocollo che prevedeva la divisione in parti uguali delle rendite petrolifere del Sudan (in gran parte nel sud) tra il governo di Khartoum e il Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla/m). Una stretta di mano molto significativa tanto che, l’anno dopo, il 9 gennaio del 2005, è stato siglato l’ Accordo globale di pace (Agp) tra Khartoum e l’Spla, a Nairobi, che prevedeva un cessate-il-fuoco permanente, autonomia per il sud, un governo di coalizione tra Khartoum e Spla/m, e un referendum da tenere nel sud, entro sei anni, per decidere sull’indipendenza o meno di quelle regioni.

Nella parte meridionale del Paese questo accordo è stato salutato come una vittoria soprattutto perchè John Garang, il capo dei ribelli, divenuto vicepresidente del Sudan, ha concesso enorme autonomia alla sua gente. Pochi mesi dopo però, in un incidente aereo, Garang è morto e il suo posto è stato preso da Salva Kiir e gli accordi di pace sono stati sul punto di saltare e la guerra sembrava doversi infiammare di nuovo. Si sono registrati infatti scontri tra lealisti e irregolari in tutto il paese, soprattutto nelle regioni contese dei Monti Nuba, dello Stato del Blu Nile e della contea di Abey, zone ricchissime di giacimenti petroliferi. Ma la crisi umanitaria e un arbitrariato internazionale che ha stabilito a chi appartenessero i pozzi petroliferi hanno convinto le due parti a silenziare le armi e a dicembre 2009 si è arrivati all’accordo tra il governo di Khartoum e quello di Juba sul referendum per l’indipendenza del sud da tenere nel 2011.

L’indipendenza e la guerra civile

Si è arrivati quindi, nel 2011, al fatidico referendum sull’autodeterminazione del Sud Sudan, che ha visto i favorevoli all’indipendenza trionfare alle urne con il 98,83% dei voti, e il 9 luglio, è stata de facto proclamata la nascita del più giovane stato africano.

E’ una vita da subito travagliata, quella del nuovo stato che, un anno dopo il referendum, ha affrontato una crisi politica ed economica con Karthoum in merito all’esportazione del greggio e i due Paesi sono stati molto vicini dall’intraprendere una guerra. Ma una volta risolta la situazione in politica estera a Juba si è assistito all’inizio di una crisi interna che non ha ancora visto la fine.

Nel 2013 il presidente Salva Kiir ha sospeso dapprima il ministro delle finanze, Kosti Manibe, e il ministro per gli affari di governo, poi ha rimosso il vicepresidente, Riek Machar Teny, ha sciolto l’intero governo e licenziato tutti i ministri; poi ha dato vita a un nuovo governo con i suoi fedelissimi e ha nominato come vicepresidente James Wani Igga, ex comandante ribelle dell’Spla/m. Ma l’epurazione dei rivali politici e la deriva autoritaria di Salva Kiir non erano finite. A dicembre il Presidente ha accusato l’ex vice Machar di aver ordito un golpe, e a questo punto non c’è stato più nulla da fare: in Sud Sudan è scoppiata la guerra civile.

 

Violenze a Juba, nelle principali città del Paese e anche nei villaggi più remoti hanno lasciato subito una scia di sangue e migliaia di morti e la guerra, che ufficialmente si protrarrà sino a febbraio 2020, ha visto contrapporsi le due principali etnie: i dinka, maggioritari, fedeli a Kiir e i nuer invece fedeli a Machar.

Il bilancio finale, dopo svariati accordi di pace risultati fallimentari, sarà di 4 milioni di sud sudanesi costretti a fuggire dai propri villaggi, oltre 400mila vittime, massacri e casi di pulizia etnica, stupri di guerra e una crisi umanitaria senza pari che ha portato persino il Papa a invitare al digiuno e alla preghiera per la pace nel Paese africano.

Si è dovuto attendere il 2020 prima che la guerra in Sud Sudan potesse dirsi definitivamente conclusa. A Roma il 12 Gennaio 2020, presso la Comunità di Sant’Egidio è stata firmata la “Dichiarazione di Roma”, che per la prima volta ha visto tutte le parti politiche del Paese firmare un accordo di cessate il fuoco e a febbraio una delegazione di Sant’Egidio si è recata in Sud Sudan per la firma dell’Accordo politico di Juba, frutto dell’intesa tra il presidente Kiir e il leader dell’opposizione Machar e che ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale.

Un bilancio

Nonostante gli accordi di pace, la formazione di un esecutivo transitorio e la riapertura del Parlamento la violenza non è mai del tutto finita in Sud Sudan e secondo l’ONG sud sudanese Community Empowerment Progress Organization (CEPO), tra gennaio e maggio 2021 oltre 3000 persone sono state uccise o ferite in scontri intercomunitari e ad oggi la situazione, aggravata anche dall’epidemia di Covid, rimane estremamente precaria: l’economia è criticissima, le armi continuano a circolare e le differenze etniche permangono divenendo un argine concreto a una rinascita unitaria del Paese. E sebbene dal 2013 ad oggi, molti sforzi siano stati fatti per uscire dalla crisi bellica, il Sud Sudan però se vuole cambiare rotta e, a dieci anni di distanza della sua nascita, intraprendere un percorso diverso deve ascoltare e fare tesoro delle parole di un suo illustre cittadino, Koj Madut Jok, antropologo e sottosegretario del ministro della cultura che, nel suo libro ”A Shared struggle: people and cultures of Sud Sudan”, ripreso in un editoriale della rivista Nigrizia, ha scritto queste parole per parlare di quella che è la grande piaga della sua nazione e quale deve essere la soluzione:“In questo momento, quasi tutte le questioni riguardanti la violenza di stato sono basate sull’etnia, con i gruppi minoritari che si lamentano di essere esclusi e che la loro terra è invasa. Quasi tutte le frequenti ribellioni hanno radici in risentimenti etnici o settoriali. Il Sud Sudan diventerà mai una nazione unificata, dove, ad esempio, l’appartenenza etnica non sarà più un elemento da considerare nelle interviste per un lavoro, dove non ci saranno più gruppi politico-militari fondati su base etnica, dove l’assegnazione di servizi, progetti di sviluppo, contratti pubblici non dipenderà dal gruppo etnico? Ora tutto questo è la norma e crea un contesto politico caratterizzato da sospetto e sfiducia…Se non si trova una soluzione a questa questione divisiva, la stabilità politica in Sud Sudan rimarrà con ogni probabilità un concetto vago”.

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