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“Che orrore, che orrore!”. Con queste poche, terribili parole Joseph Conrad ne Cuore di tenebra bollò l’esperienza leopoldina nell’Africa equatoriale. Al netto delle enfasi letterarie e delle (poco) disinteressate relazioni dei filantropi angloamericani, la conquista del Congo e la creazione de l’État Indipéndent du Congo fu una delle pagine più crude quanto incredibili dell’espansione coloniale in Africa.

Tutto iniziò negli anni Settanta dell’Ottocento. Nonostante lo scetticismo o l’ostilità dei suoi sudditi verso qualsiasi progetto coloniale, Leopoldo II del Belgio — un personaggio degno della penna di Verne: uomo di pessimo carattere, crudele e pragmatico ma anche coraggioso, imperioso e capace di grandi visioni e lucide follie — ritenne indispensabile per il prestigio (e le casse) del piccolo regno e della dinastia l’acquisizione di territori oltremare. Cocciutamente, dal suo palazzo di Laeken, il barbuto sovrano scrutò per anni i mappamondi nell’attesa dell’occasione propizia, la bonne affaire; nel tempo lo sguardo dell’irrequieto Saxe Cobourg Gotha si posò prima sulle Filippine, allora spagnole, poi su Taiwan, il Tonchino, Creta, Cipro, il Borneo, il Marocco, l’Angola, il Mozambico, le isole dell’Oceania e persino l’Etiopia. Tante ipotesi che però si rivelarono irrealistiche o troppo onerose; dopo i ripetuti smacchi, solo pochi, in patria e all’estero, presero sul serio gli “stravaganti” sogni di potenza del re. Uno sbaglio.

Indifferente alle ironie e ai lazzi, il sovrano non demorse. L’occasione tanto attesa finalmente arrivò e, per uno di susseguirsi di circostanze inattese quanto improbabili, Leopoldo riuscì ad inserirsi in una straordinaria window of opportunities e a costruire infine il suo personale impero coloniale.

Andiamo per ordine. Nel 1876, approfittando delle grandi esplorazioni nel cuore del “continente nero” e dell’onda emotiva suscitata nell’opinione pubblica dalle epopee di Livingtone e Stanley, il re convocò a Bruxelles una Conferenza geografica internazionale; in quella sede confortevole, tra proclami umanitari, richiami religiosi e obiettivi scientifici, fu creata l’Association Internationale Africaine, una struttura che dipendeva esclusivamente da Leopoldo. Uno stratagemma geniale che consentiva finalmente al monarca d’intervenire — in nome e per conto del “movimento civilizzatore” e senza coinvolgere lo Stato belga e i suoi pedanti ministri — nell’Africa equatoriale. Il passo successivo fu, nel 1877, il coinvolgimento nell’impresa di Henry Morton Stanley. Sfruttando i risentimenti dell’uomo, fresco reduce di una perigliosa spedizione transafricana, verso l’ingrata madre patria — allora impegnata nella normalizzazione dell’India e per nulla interessata ad una ulteriore espansione — Leopoldo si assicurò i suoi preziosi servigi. Il prezzo fu alto, ma ne valeva la pena.

Nel 1879 Stanley, convinto come il suo mecenate che il grande fiume Congo fosse l’asse portante per la conquista della regione, tornò in Africa. Per conto del monarca e nel nome dell’Associazione risalì la via d’acqua, stabilendo dei solidi punti d’appoggio, e convinse, con metodi che il friulano Pietro Savorgnan di Brazzà — un grande esploratore e un vero idealista — definì ributtanti, i vari capi tribù a firmare trattati e concessioni. In poco tempo, grazie a piccoli doni e tante mitragliate, il salvatore di Livingstone assicurò il bacino del Congo all’Associazione brussellese. Ma l’attivismo per conto della Francia di Brazzà e le preoccupazioni della Gran Bretagna e del Portogallo inquietarono Leopoldo: le grandi e piccole potenze coloniali non gradivano la presenza del coronato intruso in un’area misteriosa, inesplorata e già ambita dalle cancellerie di mezza Europa. Da qui le polemiche, le denunce e qualche velata minaccia militare.

Al tempo Leopoldo era debolissimo, isolato e soprattutto senza soldi. L’avventura congolese, interamente finanziata dal sovrano, aveva ormai svuotato i suoi già capienti forzieri e persino l’argenteria di famiglia fu impegnata. Insofferenti del protagonismo leopoldino, gli avari politici belgi presero da subito le distanze dal loro sovrano mentre le banche e gli usurai iniziarono a bussare insistentemente al portone di Laeken. Una catastrofe.

Ma nel 1884 il monarca salvò il suo trono e i domini equatoriali: sorprendendo con un colpo di genio i suoi mediocri ministri e i concorrenti stranieri, Leopoldo volse lo sguardo oltreoceano. Un grande giornalista del dopoguerra, Giovanni Giovannini, nel suo bel libro dedicato alla tragedia congolese (Congo nel cuore delle tenebre, Mursia 1966), scrisse: “Al termine di una sua magistrale opera diplomatica, il 10 aprile 1884 gli Stati Uniti riconobbero la bandiera dell’Associazione come quella di uno stato amico. Leopoldo riuscì a convincere Washington degli scopi umanitari e generosi del singolare organismo, che, oltre a gestire gli interessi degli Stati liberi indigeni, doveva aprire l’immensa regione al libero commercio di tutti senza distinzione di nazionalità”. Un impegno solenne che, una volta asciugato l’inchiostro delle firme dei trattati, il callido sovrano si guarderà bene dal rispettare, come non rispettò gli analoghi accordi presi con Germania e la Francia.

Nel febbraio del 1885, Otto von Bismark organizzò a Berlino la Conferenza internazionale sull’Africa, ovvero la spartizione del Continente Nero. Fu il capolavoro del cancelliere prussiano: in nome della real politik e degli equilibri, Bismark riuscì a dirimere ogni contrasto coloniale, rabbonire la Francia, tranquillizzare la Gran Bretagna e legittimare il neo colonialismo germanico. Da subito, forte dei suoi accordi con gli Stati Uniti e del suo zelo “civilizzatore”, Leopoldo s’insinuò nel concilio e ottenne dai “grandi” — con molto charme, tanti denari e innumerevoli promesse — il permesso per il consolidamento della sua rocambolesca impresa congolese. Un successo pieno che umiliava rivali temibili come Cecile Rhodes, il campione dell’imperialismo anglosassone nell’Africa meridionale. A Berlino, la Gran Bretagna, distratta dai troppi impegni in Asia e in Egitto, si fece turlupinare dai poderosi quanto confusi dossier di Leopoldo. Per di più il terribile re, approfittando della distrazione degli azzimati diplomatici del Foreign Office, con un semplice tratto di penna sulla carta incorporò l’intero Katanga nei suoi domini. Gli inglesi protestarono, ma alla fine fecero buon viso alla cattiva sorte. Al Portogallo, junior partner d’Albione, non rimase che abbozzare. Significativamente, il governo belga sottoscrisse gli accordi berlinesi con molto ritardo.

In ogni caso, in quel lontano 1885 la più stramba entità statuale dell’Ottocento prese forma. Sorse l’État Indipéndent du Congo, un assurdo geografico di due milioni e 354mila chilometri quadrati, un territorio pari ad un quarto dell’Europa, grande settantasei volte l’ipotetica “madrepatria”. Il Re aveva finalmente il suo impero. Un impero tutto suo.

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