Negli ultimi concitati giorni della Repubblica sociale, Junio Valerio Borghese rimase in continuo contatto con Mario Arillo, comandante della Decima nell’Alto Tirreno. Nonostante le rassicurazioni dei vertici germanici, l’ambasciatore Rahn e il generale Wolff, il diffidente principe rimaneva preoccupato per la sorte del porto di Genova: i tedeschi avevano posizionato lungo l’intero bacino 80 mine di enorme potenza pronte a brillare al momento della ritirata.
Da giorni Arillo aveva concentrato in città i guastatori-sabotatori del battaglione “Vega” e gli uomini “Gamma” incaricandoli di mappare gli ordigni, disinnescare le mine subacquee e rendere inoffensivi i circuiti elettrici di collegamento. Al tempo stesso, su preciso mandato di Borghese, Arillo prese contatti, tramite il vescovo Giuseppe Siri, con il Comitato di liberazione nazionale e si accordò con la formazione partigiana “Giustizia e Libertà” per un’azione congiunta in caso di pericolo.
Nella notte del 24 aprile iniziò l’insurrezione, Arillo mobilitò i suoi uomini e la mattina, tra gli applausi dei cittadini, si diresse verso il porto dove restavano asserragliati ancora 2500 soldati tedeschi molto minacciosi. Accanto agli uomini della Decima si affiancarono i partigiani di Giustizia e libertà e tutti assieme si diressero contro lo sbarramento nazista. Nella sua testimonianza Arillo ricordava così gli eventi: “Telefonai a Paolo Emilio Taviani (allora alto esponente del Cln e nel dopoguerra più volte ministro della Dc) e costui, per tutta risposta, mi ingiunse di arrendermi ai partigiani. Gli risposi che era impossibile, proprio in quel momento, perché mi stavo adoperando in stretto rapporto con i partigiani per salvare il porto. Come soldato devo dare atto che i partigiani di Giustizia e Libertà attaccarono con vigore straordinario i tedeschi. […] Con gli uomini schierati in pieno assetto di guerra e con le armi puntate, dichiarai francamente al comandante tedesco che, se avesse tentato di distruggere il porto, avrei ordinato di aprire il fuoco. Soltanto allora i tedeschi cedettero, si arresero e consegnarono le armi”.
Ottenuta la resa e messo in sicurezza il bacino portuale, i partigiani si schierarono e, con gran rabbia del livoroso Taviani, presentarono le armi ai marò della Decima. Arillo, avvolta la bandiera della Rsi attorno a un mitra, la lanciò in mare. La guerra era finita e Genova era salva.
Borghese però aveva dato ancora un altro ordine al coraggioso Arillo. La Decima, nata sul mare doveva chiudere la sua vicenda tra le onde. Con un’ultima operazione – magnificamente disperata e inutile – contro il nemico. La missione “Onore”, una Balaklava mediterranea e tutta italiana.
Alle 19.30 del 23 aprile il comandante Arillo raggiunse la base di San Remo dove tenne un rapporto agli equipaggi. Tutti i mezzi d‘assalto ancora disponibili – in tutto una trentina tra Mas e i motoscafi Sma e Mtm, poca roba ma ancora roba seria, con gente molto seria – dovevano uscire in mare per un attacco ai porti della Corsica e contro il naviglio nemico a Nizza, Antibes, Saint Tropez e Cannes. L’azione prevedeva il non ritorno, l’autoaffondamento o la distruzione delle unità contro i possibili obiettivi. Come riporta Sergio Nesi nel suo Decima flottiglia nostra (Mursia), “Lo scopo era concludere, in modo coraggioso ed esemplare, una guerra ormai definitivamente e irrimediabilmente perduta, lanciando contro il nemico tutto ciò che era possibile reperire come potenziale offensivo. […] Tutti i piloti volevano partecipare alla spedizione per cui fu giocoforza estrarli a sorte”.
Alle otto di sera del 23 aprile i mezzi salparono per portarsi nelle zone assegnate. Fu un massacro. Dalle relazioni operative della marina americana ritrovate dal Nesi si legge: “Il 24 aprile i battelli d’assalto italiani unitamente ai Mas compirono un’operazione d’assalto con la tecnica ‘kamikaze’ attaccando su tre direzioni le forze alleate. L’attacco, che si manifestò in forma irruente e spregiudicata, venne portato con determinazione dai giovani piloti italiani, ma venne stroncato dalla potenza alleata che intervenne con navi ed aerei ancor prima che otto battelli giungessero a contatto. Gli altri mezzi attaccarono ciò che si presentò loro ma vennero distrutti”.
Solo pochi, pochissimi superstiti vennero recuperati dagli alleati. Militarmente fu un’operazione suicida e, vista l’enorme disparità di forze, un fallimento. Ma, piaccia o meno, la missione “Onore” rimane una bella, quanto dimenticata, pagina di coraggio italiano. Speriamo che, finalmente, dopo tanti anni la nostra Marina Militare, un’Istituzione valida e coesa, se ne ricordi e dia a quei marinai – ancor oggi figli di un Dio minore? – il gusto riconoscimento. Lo meritano.
Pochi giorni prima, il 16 aprile per essere esatti, la Decima aveva colto la sua ultima vittoria. Ancora una volta un uomo solo contro una nave. Il marchio di fabbrica degli uomini di Tesei e Borghese. È la storia del sottocapo Sergio Denti. Nella notte, lo Sma 312 e sei Mtm erano di pattuglia nelle acque di Ventimiglia quando nell’oscurità si stagliarono le sagome scure di quattro navi. Denti lanciò il suo barchino a tutta velocità verso l’unità più grande. A 150 metri l’assaltatore riuscì a saltare e afferrare lo zatterino. Pochi secondi dopo l’Mtm colpiva in pieno il caccia francese “Trombe”. Perforata da parte a parte l’unità riuscì faticosamente a raggiungere Tolone dove fu disarmata e, qualche tempo dopo, demolita. Denti, quasi in fin di vita, fu recuperato esanime da un’altra nave francese e tratto prigioniero. È morto a Firenze il 10 febbraio 2018, aveva 93 anni.