1999, l’anno del destino che ha cambiato la storia della Russia e del mondo. La fine del breve ma intenso paragrafo eltsiniano, vissuto dai russi come un remake del Periodo dei torbidi, e l’inizio della saga di Vladimir Putin, il pragmatico leader incaricato dallo stato profondo di riportare la Russia nel club delle grandi potenze e di riscrivere il finale della Guerra fredda.
Non si possono capire le origini e le ragioni di Putin senza raccontare del 1999, uno degli anni più citati nei suoi discorsi, e degli eventi clou che lo caratterizzarono: la chiusura unilaterale del tavolo negoziale sulla Iugoslavia da parte della presidenza Clinton, la virata di Primakov, Allied Force, l’incidente di Priština.
1999, capolinea di un percorso iniziato da qualche parte tra Groznyj e Mosca, coi sospetti di una longa manus straniera nella primavera di separatismo ciscaucasica e con le prove di una collusione tra Boris Eltsin e CIA, e la cui fermata-chiave fu il 1996, l’anno del “complotto di Davos” contro Gennady Zyuganov.
Eltsin dev’essere rieletto!
Mondo, 1996. L’agguerrito e anticonvenzionale capo del Partito Comunista di Russia, Gennadij Zjuganov, è reduce da un inatteso exploit alle legislative – che lo ha consacrato leader del panorama partitico del Paese –, è in testa nei sondaggi sulle intenzioni di voto ed è ampiamente considerato, in patria e all’estero, il futuro inquilino del Cremlino.
A Davos, piccolo comune montano svizzero che dal 1971 è sede del Forum Economico Mondiale, quell’anno si trova anche Zjuganov, il grande ospite dell’evento, per rassicurare i capi di stato e gli investitori occidentali sul futuro economico della Russia: non sarebbe un ritorno al comunismo, se venisse eletto, quanto una virata verso una socialdemocrazia aperta, sebbene più attenta, al capitale straniero.
A Davos, quell’anno,, ai margini del congresso internazionale si trovano anche i padri padroni dell’economia russa, sette miliardari che hanno fortuna grazie alle privatizzazioni selettive di Eltsin e che aborrono un governo in vena di nazionalizzazioni, restrizioni alle fusioni et similia. Si tratta dei famigerati sette banchieri (семибанкирщина), reincarnazione dei sette boiardi (Семибоярщина) dell’età dei torbidi, ovvero Boris Berezovskij, Michail Chodorkovskij, Mikhail Fridman, Vladimir Vinogradov, Vladimir Gusinkij, Vladimir Potanin e Aleksander Smolenskij.
Insieme, sostiene certa stampa, i sette banchieri controllerebbero il 70% dell’economia nazionale, nonché l’intero mondo dell’informazione. Insieme al controverso speculatore George Soros, che vede nella Russia “il mercato emergente più interessante [del mondo]”, stanno finalizzando l’acquisizione di settori-chiave come telecomunicazioni e industria pesante. Insieme, ai margini del Forum Economico Mondiale, si sono riuniti per manipolare le incombenti presidenziali, alle quali Eltsin – sondaggi alla mano – verrebbe rivotato da circa il 3-8% degli aventi diritto, affinché i comunisti non entrino al Cremlino.
E così fu
L’edizione del Forum Economico Mondiale del 1996 sarebbe rimasta negli annali per il patto di Davos, definito uno “spartiacque nella storia russa” dagli stessi organizzatori dell’evento. I sette banchieri, forti del virtuale possesso di ogni angolo della realtà mediatica russa e grazie al supporto fondamentale di spin doctor e PR statunitensi, avrebbero dedicato i quattro mesi successivi al ribaltamento in extremis di un risultato elettorale dato per certo.
Quattro mesi per trasfigurare l’immagine del candidato più impresentabile delle presidenziali, Eltsin, che l’opinione pubblica detesta per il ricordo della soppressione sanguinosa della crisi costituzionale del 1993, per il “genocidio economico” – stato di recessione dal 1992 –, per la malagestione del dossier ceceno e per la criminalità galoppante. E ci sarebbero riusciti.
Attraverso un “abile utilizzo delle tecnologie elettorali”, come meccanismi di analisi in tempo reale dell’evoluzione delle intenzioni di voto, e applicando le teorie sulla manipolazione delle folle del visionario “tecnologo politico” Gleb Pavlovsky, i sette banchieri trasformarono il 3-8% di Eltsin in un roboante 54,40%. In soli quattro mesi.
Il “metodo Pavlovsky”
Nel descrivere il quadrimestre di incessante campagna di riformattazione del pensiero dell’opinione pubblica russa, durato dal dopo-Davos (febbraio) alle elezioni (giugno-luglio), Pavlovsky avrebbe parlato di una “formula [a base di] attrazione di risorse esperte, dominio del campo informativo, blocco delle mosse del concorrente, controllo dei mass media e delle élite”.
Il metodo Pavlovsky, in pratica, sarebbe consistito in un quadrimestre di: politici e intellettuali di ogni credo all’unisono contro Zjuganov, salotti televisivi impegnati 24/7 nella deumanizzazione e nella demonizzazione dei comunisti, allarmismo – spettro della guerra civile –, polarizzazione – scelta tra democrazia e totalitarismo – e disparità di trattamento mediatico – tutti i canali televisivi schierati a favore di Eltsin.
Secondo l’Istituto Europeo per i Media, coinvolto nell’analisi della campagna elettorale – vista, in Occidente, come un banco di prova per la neonata democrazia russa –, le presidenziali avrebbero rappresentato un passo indietro rispetto al 1991 e la copertura mediatica non sarebbe stata né giusta né libera in quanto straordinariamente penalizzante per Zjuganov, un candidato sia marginalizzato – la sua campagna seguita soltanto dal 18% della stampa – sia screditato – assegnando un “1” (positivo) e un “-1” (negativo) per ogni notizia e servizio sui due candidati, Eltsin registrò 492 e 247 al primo e al secondo turno, mentre Zjuganov -313 e -240.
Il 3 luglio, al secondo turno, magnetizzando un altisonante 54,40% di voti, un redivivo Eltsin prevalse su colui che quattro mesi prima era stato trattato dagli ospiti di Davos alla stregua di un re nell’attesa dell’incoronamento. Pavlovsky, con l’aiuto di colleghi statunitensi, era riuscito nella mission impossible di convincere i russi non a votare per Eltsin, ma contro Zjuganov. I conti correnti dei sette banchieri erano salvi. Uno dei loro principali sponsor oltreconfine, Soros, sarebbe passato ad incassare la parte dovuta due settimane dopo – l’entrata nella prima holding delle telecomunicazioni del Paese, Svyazinvest, con un investimento da 980 milioni di dollari reso possibile dall’Unexim di Potanin.
I putschisti di Davos avevano vinto: i comunisti non erano entrati al Cremlino. Ma non avevano fatto i conti con il rancoroso stato profondo che, sopravvissuto alle purghe di Eltsin, tre anni più tardi, cavalcando la sequela di eventi del fatidico 1999, avrebbe detronizzato il presidente con un golpe morbido e instaurato un semisconosciuto securocrate: Putin. Tra le prime azioni del silovik sanpietroburghese, curiosamente, l’avvio di una lotta senza quartiere ai sette banchieri. Il resto è storia.