A far tornare di moda il termine “woke” – nel senso di “essere consapevoli”, “ben informato” – è stato senza ombra di dubbio il movimento antirazzista Black Lives Matter, ma la sua origine è un po’ più complessa. Come spiega La Repubblica, dal punto di vista grammaticale, woke è semplicemente il passato del verbo to wake: svegliare. Politicamente, evoca l’idea di un risveglio di stampo progressista: la “consapevolezza di problemi sociali e politici come il razzismo e la diseguaglianza”, secondo un dizionario dello slang di Washington. Secondo una definizione dell’Urban Dictionary, la “woke supremacy” riportata da Newsweek è la convinzione che le persone “woke” siano “superiori a quelle di tutte le altre razze, in particolare quelli che appartengono alla razza nera” e dovrebbero “quindi dominare la società”.

Woke, la parola chiave dei progressisti

Come spiega Fox News, Merriam-Webster ha aggiunto la parola al suo dizionario nel 2017, definendo la persona “woke” come “consapevole e attivamente attenta a fatti e questioni importanti (in particolare questioni di giustizia razziale e sociale).” Il dizionario di Oxford l’ha adottata lo stesso anno, definendo “woke” come “originariamente, ben informato, aggiornato. Ora principalmente, attento alla discriminazione e all’ingiustizia razziale o sociale”. “La parola woke si è intrecciata con il movimento Black Lives Matter; invece di essere solo una parola che segnalava la consapevolezza dell’ingiustizia o della tensione razziale, è diventata una parola d’azione”, secondo Merriam-Webster.

Di fatto, “woke” è diventata la nuova parola d’ordine della sinistra progressista internazionale, la stessa sinistra liberal che negli Stati Uniti ha abbracciato, negli ultimi decenni, la politica dell’identità, ma soprattutto quella che secondo l’illustre politologo Francis Fukuyama ha deciso di esaltare “particolari forme di identità” anziché “costruire solidarietà attorno a vaste collettività come la classe operaia o gli economicamente sfruttati”, e si è concentrata “su gruppi sempre più ristretti che si trovano emarginati secondo specifiche modalità”. Da qui la guerra culturale e identitaria che sta dividendo la società americana in “tribù” – etniche, di genere – in competizione fra loro. 

La Woke supremacy evocata dal senatore repubblicano Tim Scott

Benché si tratti di un’espressione piuttosto vaga ritornata in auge negli ultimi anni grazie alla popolarità di Black Lives Matter, l’essere “woke” non è una novità assoluta per la sinistra mondiale, anzi: è la solo versione più moderna e modaiola di quell’antico vizio di molti attivisti di sinistra, i quali credono – spesso a torto – che le loro opinioni siano più importanti, significative e intelligenti di chi la pensa diversamente, il vecchio mantra della superiorità morale – e culturale – della sinistra rispetto alla destra conservatrice. Quella intollerabile spocchia che il senatore repubblicano di colore Tom Scott ha definito “Woke Supremacy”. Scott ha coniato la geniale espressione rispondendo alle osservazioni Joy Reid di MSNBC, secondo il quale il senatore stava presenziando a una conferenza stampa del Gop solamente per “dare una patina di diversità al partito”.

Ospite di Trey Gowdy su Fox News, Scott ha sottolineato che “la woke supremacy è un male tanto quanto la supremazia bianca” E ha esortato le persone a leggere un versetto del vangelo Matteo 5:44, che insegna ad amare i propri nemici. In un editoriale pubblicato sul Washington Post, Scott ha spiegato che la woke supremacy “è l’intolleranza della sinistra ‘tollerante’ per il dissenso. È una concezione progressiva della diversità che non include la diversità di pensiero. È una discriminazione falsamente spacciata come inclusione” spiega Scott.

Il senatore di colore della Carolina del Sud, eletto per la prima volta nel 2013, ha sottolineato che questa supremazia continuerà a dividere gli Stati Uniti “o possiamo scegliere di creare pari opportunità e accesso al sogno americano per tutti”. La reazione della sinistra alle sue parole è stata piuttosto scomposta: l‘editorialista liberal del Washington Post, Jonathan Capehart, lo ha definito uno “sciocco” e complice nel mettere a tacere le voci che chiedono giustizia razziale, mentre il collega del Post  Colbert King ha scritto che  Scott era “la prova vivente che né la diversità razziale né quella di genere sono garanti dal progressismo.” Un altro editorialista liberal, Leonard Pitts, ha affermato che l’osservazione di Scott era “profondamente stupida”. Commenti che, di fatto, danno ragione proprio al senatore di colore. Non a caso, nell’ambiente conservatore, l’espressione “woke supremacy” viene ora associata al fenomeno della cancel culture e, in generale, a chi vuole tappare la bocca all’avversario politico.

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