Studi scientifici sono sempre più concordi nell’evidenziare come l’utilizzo della vitamina D possa ridurre il rischio di mortalità da Covid-19. Se assunta prima dell’insorgenza dell’infezione, i risultati possono essere davvero sorprendenti. In Gran Bretagna già a novembre il governo aveva approvato un protocollo per la distribuzione di integratori a base di vitamina D a 2.7 milioni di persone riscontrando la veridicità della ricerca. In Italia invece solo il Piemonte sta sviluppando una modalità di intervento che prevede l’utilizzo della vitamina D. Perché il protocollo non trova applicazione in tutto il nostro Paese?
La funzione della vitamina D
In ambito scientifico è da sempre risaputo come la vitamina D abbia un ruolo importante nell’attività antimicrobica non solo contro gli agenti patogeni ma anche verso i virus respiratori. Al contempo è stato dimostrato che la mancanza di questa vitamina nel sangue può incidere sull’aumento del rischio delle influenze e delle infezioni respiratorie, anche acute. In uno studio randomizzato inoltre si è dimostrato come l’utilizzo della vitamina D in pazienti ad alto rischio di infezione delle malattie respiratorie riducesse i sintomi del malessere e anche la necessità di ricorrere alla terapia a base di antibiotici. Non solo, altri studi hanno messo in evidenza che i soggetti con una carenza della vitamina D nel sangue vedevano un aumento del 64% del rischio di contrarre la polmonite.
Alla luce di ciò, che ruolo può avere la vitamina D nella lotta contro il coronavirus? Uno studio del fisico Mario Menichella, della fondazione Hume presieduta dal professor Luca Ricolfi, ha fatto emergere che l’insufficienza della vitamina D può incidere sulle cause di mortalità da Covid. La sua carenza infatti sarebbe la causa della compromissione della funzione immunitaria respiratoria che, di conseguenza, aumenterebbe appunto il rischio del decesso.
Sulla rivista The Journal of the American College of Nutrition (JACN) è stato pubblicato uno studio tutto italiano proveniente da Tor Vergata che ha messo in evidenza “come i bassi livelli di vitamina D – si legge nel documento – al momento del ricovero siano significativamente associati ad un aumentato rischio di mortalità nei pazienti ospedalizzati con COVID-19. Si tratta di uno studio- prosegue il testo- retrospettivo condotto su un totale di 137 pazienti ricoverati presso il Policlinico di Tor Vergata durante la primavera del 2020, periodo corrispondente alla prima ondata di Covid 19 in Italia. Al momento del ricovero, tutti i soggetti arruolati nello studio presentavano un deficit di vitamina D, definito da valori di 25-idrossivitamina D <30ng/mL. Inoltre, i soggetti andati incontro ad esito fatale (59 pazienti su 137) presentavano valori di vitamina D significativamente inferiori del 40% rispetto ai soggetti sopravvissuti (8ng/mL. Vs 12ng/mL)oltre che valori significativamente maggiori dei principali marker infiammatori e di coagulazione”.
La vitamina D per affrontare il Covid
Non ci sono dubbi da parte degli studiosi circa gli effetti benefici della vitamina D nella lotta contro il coronavirus. L’integrazione di vitamina D, in base ai risultati finora ottenuti, sembra che riesca a diminuire i casi della malattia grave e dei decessi. Gli stessi ricercatori però chiariscono che sono necessari altri studi specifici per determinare il dosaggio ottimale di vitamina che possa consentire di raggiungere questi risultatati con maggiore sicurezza. Si tratta di una prospettiva che fa ben sperare non solo per i benefici che ne derivano, ma anche per l’elevato profilo di sicurezza e per i suoi costi che sono del tutto irrisori. Ed allora ecco che fare scorta di vitamina D ogni giorno è altamente consigliato in assenza di circolari ministeriali. Si può assumere o con appositi integratori o con l’esposizione al sole: braccia e gambe scoperte per almeno 20 minuti. In questo modo, se si dovesse contrarre il coronavirus, la presenza di vitamina D nel sangue dovrebbe aiutare ad essere più forti nello sconfiggere la malattia.
In questo contesto assume particolare rilevanza anche il lockdown. Secondo gli esperti questo strumento utilizzato per proteggere la popolazione dalle infezioni da Covid ha un effetto non benevolo: ostacola tutti quei meccanismi immunitari di difesa a causa del calo della presenza di vitamina D che, a sua volta, è causa della mancata esposizione al sole.
I casi di Gran Bretagna e Andalusia
In alcuni Paesi gli studi sulla correlazione tra l’incidenza di vitamina D e il tasso di mortalità sono partiti già durante la prima ondata di contagi. A novembre il governo britannico ha dato via libera a un protocollo per la somministrazione gratuita di integratori di vitamina D ad almeno 2.7 milioni di persone. Precedenza è stata data in tal senso ai pazienti delle case di riposo e ai soggetti più vulnerabili: “Il governo si sta attivando per garantire che le persone vulnerabili possano accedere a una fornitura gratuita per i mesi invernali più bui”, ha dichiarato all’epoca sul The Guardian il segretario alla Salute del Regno Unito, Matt Hancok. La logica del piano è basata sul fatto che da novembre a marzo, per dinamiche legate alla stagione invernale, i cittadini inglesi sono poco esposti al sole, fonte naturale primaria di vitamina D.
Ma adesso si sta chiedendo al governo di implementare questi piani. Il 3 febbraio, il deputato conservatore David Davis ha richiesto al premier Boris Johnson di incrementare le terapie basate sulla vitamina D, portando come esempio quanto accaduto in Andalusia. Nella regione spagnola infatti un programma basato sulla somministrazione di vitamina D ha già avuto, secondo le autorità sanitarie locali, ampio successo. Tutto grazie a una ricerca, mandata avanti dall’ospedale di Cordoba, secondo cui l’uso del calcifediolo, farmaco a base di vitamina D, ridurrebbe dell’80% le ospedalizzazioni dovute al Covid-19: “Se tutte le ipotesi fossero confermate – ha dichiarato ai quotidiani spagnoli José Manuel Quesada, uno dei medici impegnati nello studio – questo farmaco potrebbe trasformare il Covid-19 in una malattia lieve, in un’influenza”.
Risultati incoraggianti dunque, tanto da essere pubblicati anche su Lancet. Qui è stato evidenziato che dei 551 pazienti Covid ricoverati all’Hospital del Mar di Barcellona ed ai quali è stato somministrato il calcifediolo, soltanto 30 sono finiti in terapia intensiva.
La situazione in Italia
Per adesso nel nostro Paese non esistono piani nazionali sull’uso di integratori di vitamina D. Solo la Regione Piemonte si è mossa su questo fronte. Nella modifica del protocollo sulla presa in carico a domicilio dei pazienti Covid, effettuato dalle Usca, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, è prevista infatti anche la somministrazione di vitamina D. Proprio a Torino l’Accademia di Medicina, presieduta dal professor Giancarlo Isaia, ha condotto studi anch’essi in grado di dimostrare la validità delle terapia basate sulla vitamina D. Nel resto d’Italia però non sono previsti simili protocolli. Eppure una ricerca coordinata dal fisico Giuseppe De Natale ad ottobre, ha svelato una possibile correlazione tra l’esposizione ai raggi ultravioletti, che aumenta la capacità del nostro corpo di produrre vitamina D e il numero di contagi.
Più si è esposti al sole, meno è la possibilità di ammalarsi di Covid. Nelle regioni settentrionali del nostro Paese, più fredde rispetto a quelle meridionali, si potrebbe quindi avviare una sperimentazione relativa alla somministrazione di vitamina D: “Sarebbe importante – ha confermato su InsideOver il fisico Mario Menichella – anche perché potrebbe rappresentare un piano B, da implementare parallelamente alla vaccinazione, la quale come sappiamo sta procedendo a rilento”. Per questo la fondazione Hume, assieme all’Accademia di Medicina di Torino, ha promosso una raccolta firme per chiedere alle autorità sanitarie italiane di avviare su tutto il territorio le sperimentazioni: “Attualmente – ha dichiarato Menichella – 150 personalità mediche di alto profilo hanno firmato l’appello”.