L’Europa è stata travolta dalla seconda ondata di coronavirus. Nessun Paese è riuscito a evitare l’impatto con il ritorno di fiamma del Sars-CoV-2, neppure i più preparati e all’avanguardia. Persino le nazioni che erano state risparmiate la scorsa primavera sono finite nell’occhio del ciclone: per maggiori informazioni, ad esempio, basta dare un’occhiata ai dati di Repubblica Ceca e Polonia. Insomma, l’intero continente è immerso nuovamente in un’emergenza sanitaria senza precedenti.

Eppure, in mezzo al marasma generale, ci sono alcuni Stati europei che sono riusciti se non a bloccare, almeno ad arginare la diffusione del Covid. Ognuno ha usato approcci e modelli diversi, a seconda delle proprie particolarità geografiche, delle capacità dei rispettivi sistemi sanitari e delle caratteristiche demografiche della popolazione. Il messaggio è chiaro: con qualche accorgimento in più da parte dei singoli cittadini, unito a un dettagliato piano nazionale, è possibile convivere con il Sars-CoV-2. L’importante è avere un piano e, dunque, essere organizzati.

Il bunker irlandese

L’Irlanda è il primo Paese europeo ad aver attuato il lockdown dopo l’arrivo della seconda ondata del virus. Dal 21 ottobre, per sei settimane, Dublino ha imposto la serrata nazionale a tutte le attività considerate non essenziali, pub compresi, prima della festa di San Patrizio. Il primo ministro Micheal Martin ha emesso un ordine nazionale che può essere riassunto in poche e semplici parole, riassumibili in “stay at home”, ovvero “restate a casa”.

Le attività di ristorazione possono effettuare servizio da asporto ma con una limitazione ben precisa: le consegne dovranno avvenire soltanto entro un raggio d’azione di 5 chilometri dal locale. Le scuole, come in Francia e in Italia, restano aperte. Soltanto i lavoratori essenziali sono autorizzati a recarsi al lavoro, mentre i cittadini potranno effettuare attività fisica nei dintorni delle proprie abitazioni (anche qui, raggio massimo di 5 chilometri). Guai alle feste fai da te organizzate in casa. Il governo è stato chiaro: impossibile recarsi in casa di altri se non per ragioni essenziali. I trasgressori saranno severamente puniti. In caso di party è prevista una pena fino a mezzo anno di prigione. L’esecutivo irlandese ha pensato anche a tutti coloro che vivono da soli e a rischio isolamento. Per loro è stato allestito un particolare programma denominato “social bubble“, bolla sociale, che consentirà alle persone di socializzare con un’altra famiglia. A differenza del primo lockdown gli sport professionistici saranno consentiti, seppur a porte chiuse.

La strategia di Dublino è una sorta di tutto per tutto: misure rigidissime applicate in maniera tempestiva, nella speranza di un rapido crollo dei contagi e di limitati danni all’economia. L’obiettivo del governo, infatti, è salvaguardare il Natale e riaprire la vendita al dettaglio prima delle festività natalizie. Il premier Martin lo ha espressamente annunciato in conferenza stampa: le attuali restrizioni attuate dall’Irlanda sono probabilmente le più rigide d’Europa ma necessarie per evitare conseguenze peggiori. “Se marciamo nella stessa direzione nelle prossime sei settimane avremo l’opportunità di celebrare il Natale in modo significativo”, ha detto Martin.

Il governo spera che il percorso intrapreso possa consentire al Paese di portare le restrizioni di livello 5 del Plan for living with covid-19 al livello 3 entro il primo dicembre. Dopo appena due settimane dal blocco, i primi risultati sono stati più che soddisfacenti. Il famigerato indice dei contagi è sceso nuovamente sotto la soglia dell’uno, fermandosi in un range compreso tra lo 0,9 e lo 0,7. Calcolatrice alla mano, i casi quotidiani sono passati dai 1.283 dello scorso 18 ottobre (picco della seconda ondata) ai poco meno di 500 dei primi giorni di novembre. Nonostante l’evidente miglioramento, Martin è inflessibile: il lockdown proseguirà per sei settimane.

Una vittoria inaspettata

La battaglia intrapresa dalla Georgia contro il coronavirus è stata definita dai media una “improbabile storia di successo”. Chi avrebbe potuto immaginare che un Paese così piccolo, e al contempo ricco di problemi interni, riuscisse a mettere una museruola al Sars-CoV-2? Il governo georgiano è invece riuscito nell’impresa di limitare i danni sanitari. Nonostante un’economia in difficoltà il Paese ha iniziato a prendere serie misure precauzionali già dalla fine di febbraio. In quei giorni Tbilisi imponeva la chiusura delle scuole e l’esecuzione di test diagnostici diffusi tra la popolazione.

A quanto pare la mossa ha funzionato, visto che al 20 marzo si contavano appena 44 casi e zero vittime. La giornalista georgiana Natalia Antelava ha spiegato su Foreign Policy il possibile segreto del successo della nazione: “Questo è un paese che è abituato alla crisi, ed è un paese che ha vissuto guerre civili e l’invasione russa nel 2008 e un periodo molto buio negli anni ’90 dopo il crollo dell’Unione Sovietica”. La scorsa primavera la Georgia ha sospeso immediatamente i voli diretti con Stati in cui la situazione Covid appariva fuori controllo (è il caso dell’Iran) e messo in quarantena i viaggiatori provenienti da alcuni Paesi stranieri. Non solo: prima che la maggior parte dell’Europa prendesse contromisure adeguate, il governo locale ha condotto una campagna di sensibilizzazione pubblica senza precedenti per spiegare alla popolazione che cosa stava succedendo e quali comportamenti adottare nella quotidianità per evitare di ammalarsi. Detto altrimenti, nessuno si è scoraggiato e tutti hanno fatto la loro parte.

In particolare, è stato interessante notare come l’esecutivo abbia fatto un passo indietro per lasciare il controllo dell’emergenza agli operatori sanitari. Come ha sottolineato il sito eurasia.net, le migliori menti della salute pubblica della nazione, tra cui il capo del Centro nazionale per il controllo delle malattie, Amiran Gamkrelidze, hanno risposto presente. Molti di loro sono diventate delle star dei media, fornendo aggiornamenti esaurienti sulla pandemia, sulla salute dei pazienti e sulle possibili fonti di infezione. Le loro parole, insomma, erano (e sono) basate sul rigore scientifico e commisurate alle risorse del Paese. Già, perché la Georgia ha dovuto sì attuare misure di sicurezza, ma facendo bene attenzione a non danneggiare un sistema economico scricchiolante. La seconda ondata si è abbattuta sulla Georgia con l’arrivo dell’autunno. I casi hanno sfiorato i 3mila al giorno ma il picco massimo di morti è stato di 28. Con calma e sangue freddo, Tbilisi sta cercando di gestire l’ennesima emergenza.

Test a tappeto

Grazie a un sostanziale isolamento geografico e a una popolazione irrisoria, se paragonata a quella presente in altri Paesi europei, l’Islanda ha saputo controllare al meglio i dati relativi alla pandemia di Covid. Dall’inizio dell’emergenza nel Paese si contano poco più di 5mila casi e appena 18 decessi. La seconda ondata ha colpito Reykjavík alla fine di settembre, senza tuttavia fare particolari danni. Il motivo non può essere ricercato nel solo isolamento dell’isola.

L’Islanda ha attuato fin da subito un approccio molto particolare. Dal momento che nel Paese vivono circa 364mila abitanti, il governo ha pensato bene di spingere sui test di massa. L’obiettivo? Testare letteralmente tutta la popolazione (lo stesso modello, per capirci, adattato anche dalla Slovacchia). Ebbene, durante la prima ondata le autorità islandesi avevano scoperto che la metà di persone risultate positive al virus erano asintomatiche. “L’Islanda offre un quadro un po’ più chiaro di come il virus si sta diffondendo nella popolazione generale”, ha spiegato su Foreign Policy la giornalista islandese Jelena Ciric. Oltre a dare una grossa mano alla comunità scientifica mettendo a disposizione della ricerca i dati sulla propria popolazione, il piccolo Paese è intervenuto in maniera pesante con le classiche misure restrittive.

Il governo islandese ha scongiurato la crescita esponenziale della curva epidemiologica proprio grazie alle misure di massa adottate fin da subito. In questo modo le persone esposte al virus (o probabilmente entrate in contatto con qualche positivo) sono state messe in quarantena. È improbabile che simili test di massa possano essere adottati in Paesi nettamente più grandi. È tuttavia possibile adottare un simile approccio, ad esempio, nelle aree più colpite dal coronavirus.