Marsiglia supera quota 44. È il bilancio provvisorio degli omicidi per fatti di droga registrati in città dall’inizio dell’anno (cifra a cui vanno aggiunti anche 109 ferimenti). Un tragico record che supera persino quello del già sanguinoso 2022: l’anno scorso la funera contabilità si era fermata “solo” a quota 39 cadaveri.
Ad arrotondare il macabro calcolo domenica 10 settembre una giovane donna di 24 anni è stata uccisa da una pallottola vagante rimbalzata dalla strada sino al suo appartamento al terzo piano. Per le gang che quella notte si affrontavano sui marciapiedi per il controllo di una piazza di spaccio solo un danno collaterale, un semplice fastidio. La mattanza non si è infatti fermata. Il giorno dopo sul lungomare un uomo è stato falciato da una raffica di mitra. Morto stecchito. Per l’impaurita Marsiglia la conferma che la feroce guerra in atto tra i narcotrafficanti locali non risparmia nessuno e nessuno qui è al sicuro.
La situazione, come ammettono le stesse autorità, è ormai fuori controllo: bande di ragazzini minorenni — reclutati e gestiti dai terminali dei vari boss legati ai cartelli nordafricani o sudamericani — sciamano ogni sera dalle periferie degradate verso tutti gli angoli della città per contendersi a colpi di pistola o di kalashnikov i punti dello spaccio, i cosiddetti “chouf”. Con risultati devastanti. Come in un assurdo videogioco i “minots”, per lo più giovanissimi immigrati arabi di seconda o terza generazione reclutati nei quartieri più poveri, impiegano fucili d’assalto che faticano ad imbracciare e poi sparano nel mucchio. Spesso senza nemmeno mirare. Terrorizzando, ferendo, uccidendo.
La media è ormai una sparatoria ogni tre giorni, insomma un’atmosfera in tutto simile ai cupi scenari proposti delle serie televisive dedicate ai narcos. Una follia senza fine che la procuratrice della Repubblica, Dominique Laurens, definisce “narchomicides” (narco-omicidi). Uno tsunami di violenza che ha travolto anche le assai demotivate forze dell’ordine transalpine. Non a caso. I procedimenti interni avviati dal ministro degli Interni Gerald Darminin dopo le rivolte dello scorso luglio culminate con gli arresti proprio a Marsiglia di quattro agenti — colpevoli di essersi opposti con risolutezza ai saccheggi e alle devastazioni —, hanno fortemente scosso gli uomini in divisa. Da quest’estate poliziotti e gendarmi — la prima linea della sicurezza sul territorio — si limitano, quando va bene, al “minimo sindacale” o si danno malati o consumano le ferie arretrate.
Pochi, pochissimi hanno voglia di rischiare la vita in una guerra che lo Stato sembra non aver voglia di combattere e tra quel pugno d’irriducibili rimasti in trincea scorre lo sconforto. Gli uffici della polizia giudiziaria e della brigata criminale sono intasati di denunce, il personale è insufficiente, le indagini languono al punto, come rivela il quotidiano Le Monde, che oltre trecento pratiche su sospetti già identificati come legati al narcotraffico restano inevase: mancano persino gli agenti necessari per poterli interrogare.
Stessa triste musica sul fronte della magistratura. Nelle scorse settimane l’associazione civica “Coscience” ha chiesto al tribunale amministrativo di imporre al prefetto l’attuazione di alcune misure d’urgenza per limitare, almeno parzialmente, la violenza e migliorare la vivibilità nelle zone a rischio. Una piccola lista di cose buon senso come servizi e trasporti pubblici efficienti e poliziotti di quartiere. Nulla da fare. Il 7 settembre i giudici hanno respinto la richiesta dei cittadini poiché “le misure sollecitate sono d’ordine strutturale e non possono essere attuate a breve”. Insomma, sono fatti vostri e non rompeteci le scatole. Marsiglia è sempre più sola.