Lo scontro senza esclusione di colpi bassi tra il presidente francese Macron e il leader turco Erdogan può essere letto su più piani: quello della lotta tra islamismo e secolarismo; quello dello scontro geopolitico, che appare forse come il più evidente, con interessi strategici chiaramente contrastanti tra i due Paesi, sia nel Mediterraneo che in Libia.
Vi è però un altro aspetto che coinvolge intrinsecamente l’Europa e che riguarda quella libertà di pensiero, di espressione ed anche di satira che dovrebbe essere uno dei valori portanti del Vecchio Continente ma che è aberrata da un islamismo politico e militante di cui Erdogan si è proclamato paladino, presentandosi come il “difensore dell’islam” a livello mondiale, ma esclusivamente per proprio tornaconto nonchè della sua lobby, ideologicamente legata al gruppo islamista radicale dei Fratelli Musulmani e ovviamente tutto a discapito del popolo turco finito nella morsa della repressione nei confronti di qualsiasi tipo di dissenso.
I gruppi islamisti radicali attivi in Francia
Emmanuel Macron aveva già preso di mira da tempo l’islamismo, tanto che nell’aprile del 2019 aveva affermato come l’islam politico fosse “una minaccia per la Francia” e nel febbraio del 2020 aveva rincarando la dose dichiarando come nel Paese “non vi fosse spazio per l’islam politico”.
La recente escalation, iniziata a settembre con la nuova pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto, l’attentato alla vecchia sede di Charlie Hebdo dello scorso 25 settembre, la decapitazione di Samuel Paty il 18 ottobre e la donna con velo integrale che ha minacciato di farsi esplodere alla stazione di Lione il 22 ottobre, hanno portato le autorità francesi a una stretta nei confronti di quelle associazioni islamiste accusate di fomentare odio, circa una cinquantina secondo fonti transalpine.
Tra quelle indicate dalle autorità francesi c’è il collettivo “Sheikh Yasin”, fondato nel 2004 in onore del leader storico di Hamas (braccio palestinese dei Fratelli Musulmani), dal predicatore franco-marocchino Abdelhakim Sefrioui, già classificato con “Fiche S” dall’antiterrorismo francese e arrestato assieme a Brahim Chnina, padre di un’allieva di Paty. Entrambi sono accusati di essere i mandanti morali dell’omicidio attraverso una violenta propaganda online e nel caso del secondo soggetto, anche di contatti diretti via whatsapp con il killer ceceno.
Il collettivo vanta un canale YouTube con poco meno di una quarantina di filmati molti dei quali su Gaza e uno in particolare inneggiante a Khaled Mashaal, leader di Hamas. Nel 2010 il Collettivo aveva manifestato contro Hassen Chalghoumi, imam della moschea di Drancy che voleva tessere buoni rapporti con la comunità ebraica. Macron lo ha fatto sciogliere la scorsa settimana con l’accusa di divulgare odio anti-repubblicano e di essere direttamente implicato nell’omicidio di Paty.
Altra associazione senza scopo di lucro presa di petto dalle autorità transalpine è la “BarakaCity“, fondata in Val d’Oise nel 2008, due anni più tardi diventava Ong internazionale con l’obiettivo di aiutare le popolazioni musulmane a Gaza, Siria, Niger, Birmania, Togo e Repubblica Centroafricana e dal 2013 avrebbe ricevuto più di 16 milioni di euro in donazioni. Il suo fondatore, Idriss Sihamedi, è nella black list dell’antiterrorismo dal 2014 e si è espresso più volte in maniera controversa su più temi tra cui l’attentato a Charlie Hebdo e l’importanza di non stringere la mano alle donne.
Altro gruppo più volte indicato come problematico dall’esecutivo Macron è il “Collectif contre l’islamophobie“, fondato nel 2003 dall’ex predicatore Tabligh Samy Debah con l’obiettivo di combattere contro l’islamofobia, ma che si è più volte espresso contro la laicità dello Stato francese ed è stato indicato come collegato ai Fratelli Musulmani.
L’incompatibilità tra islamismo e valori democratici
E’ di fondamentale importanza non perdere di vista il fattore scatenante che ha portato a quest’ultima escalation tra Parigi ed Ankara, ovvero la nuova pubblicazione di vignette satiriche su Maometto in concomitanza con l’inizio del processo ai fiancheggiatori dei terroristi islamisti resisi responsabili degli attentati del 2015-16 a Parigi. Vignette che possono risultare offensive, fuori luogo, inutili o divertenti a seconda dei punti di vista ma che non possono in alcun modo giustificare azioni violente o censure, perchè i valori della libertà e della democrazia si basano anche sulla possibilità di avere punti di vista differenti e di poterli esprimere senza dover rischiare di essere arrestati o decapitati. Un aspetto che evidentemente gli islamisti non riescono proprio ad accettare e tollerare.
Samuel Paty, il docente di educazione civica decapitato dal 18enne ceceno Abdullakh Anzorov, ha impartito una lezione chiara alla propria classe per quanto riguarda la libertà di espressione ed ha anche dato la possibilità agli studenti musulmani di uscire dall’aula per non sentirsi offesi dalle vignette. In poche parole: “Qui ci si esprime liberamente su tutto e chi non vuole partecipare è libero di uscire”. Nulla da obiettare, c’è la libertà di partecipare, di controbattere o di non partecipare. Forse Paty ha sopravvalutato alcuni suoi studenti e non si aspettava conseguenze così drammatiche, ma purtroppo c’è anche chi non ama la libertà ed è pronto a scatenare l’inferno per fare in modo che questa venga meno, in nome di un’ideologia malata che non dovrebbe trovare alcuno spazio in Europa e in Occidente in generale, ma che nel tempo si è insediata capillarmente sul territorio al punto di arrivare a fare lobbying politico con certi ambienti che fingono di non vederne i pericoli, perché è veramente difficile non vederli.
Il punto è che un docente è stato ucciso e decapitato perché gli islamisti (studenti, genitori degli studenti, predicatori amici dei genitori) non gradivano l’esposizione delle vignette su Maometto, personaggio che se per loro è “il Profeta”, per altri può essere un semplice personaggio storico, magari anche sgradito o un perfetto signor nessuno. Tutti punti di vista più che legittimi in un contesto democratico ma evidentemente non in uno islamista e chiaramente recidivo, visto il precedente attentato a Charlie Hebdo nel gennaio 2016 e l’omicidio di Theo Van Gogh nel 2004, “colpevole ” di aver criticato l’Islam in un cortometraggio dal titolo “Submission”.
Del resto l’avversione per la critica e l’opposizione politica è stata ampiamente dimostrata dagli islamisti sia in Egitto che in Turchia. Recep Tayyip Erdogan e Mohamed Morsy hanno infatti diversi comun denominatori tra i quali l’essere entrambi legati all’organizzazione islamista radicale dei Fratelli Musulmani (messi al bando in Egitto, Russia, Siria, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein) e il non aver mostrato assolutamente nulla di democratico nonostante le continue rivendicazioni di essere stati “democraticamente eletti”. I due esponenti islamisti (il secondo estromesso da una rivolta popolare appoggiata dall’esercito, arrestato e poi deceduto) non hanno infatti capito che il concetto di democrazia implica la salvaguardia dell’opposizione e non la dittatura della maggioranza con tanto di repressione di critici e oppositori.
Mohamed Morsy ha infatti battuto il “record repressivo” in Egitto per quanto riguarda i provvedimenti legali nei confronti di giornalisti e personaggi legati ai media, come denunciato dalla Arabic Network for Human Rights Information. Secondo tale rapporto il numero di denunce sarebbe di quattro volte maggiore rispetto all’era Mubarak e 24 volte più grande rispetto a quella di Sadat. Considerando che Mubarak è rimasto al potere per trent’anni, Sadat per undici anni e Morsy soltanto per un anno, i numeri parlano chiaro. Durante l’anno di governo Morsy si è inoltre verificato il primo pogrom della storia d’Egitto nei confronti degli sciiti e una serie di attacchi contro i cristiani copti che hanno trascinato la popolazione nel terrore.
Per quanto riguarda la Turchia di Erdogan, risulta oggi la più grande galera per giornalisti al mondo, con la stampa non allineata costantemente presa di mira tramite l’utilizzo della magistratura. C’è poi a chi è andata peggio, come l’ex direttore del quotidiano Cumhuryet, Can Dundar, “colpevole” di aver scoperto, documentato e denunciato i rifornimenti di armi dei servizi turchi ai jihadisti in Siria. Dundar veniva ferito a colpi di arma da fuoco nel maggio 2016 fuori del tribunale dove era in corso il processo nei suoi confronti, proprio per quella pubblicazione e veniva condannato a cinque anni e 10 mesi di reclusione. Ci sono poi i casi di Enis Berberoglu, Leyla Guven e Musa Farisugullari, parlamentari del partito d’opposizione Chp arrestati a inizio giugno 2020, sempre con l’accusa di “spionaggio”.
Non c’è dunque da stupirsi se gli islamisti difendono Erdogan e predicano violenza nei confronti di chi si esprime liberamente e fa satire ad essi non gradite, perché è nella loro natura ideologica. Il problema però sono loro, non la libertà di espressione e questo è bene tenerlo a mente ed evitare inutili e dannosi relativismi. Finora il sostegno degli altri leader europei nei confronti di Macron appare tiepido se non nullo. Tuttavia le cose stanno cambiando rapidamente e non si può escludere che a breve certi equilibri da tempo traballanti verranno meno.