Terza ondata, varianti del virus, zone rosse e arancioni, chiusure prorogate. I termini utilizzati per raccontare la pandemia di Covid-19 sono più o meno sempre gli stessi. A essere cambiati, semmai, sono i dati che descrivono l’emergenza sanitaria. Eppure, nonostante si intravedano, ormai da settimane, segnali di schiarita, un buon numero di esperti continua a profetizzare la solita venuta dell’apocalisse. Sia chiaro, nessuno intende sminuire quanto sta accadendo. Solo che, prima di allarmare la popolazione – per altro reduce da un annus horribilis –, bisognerebbe esser non certi (è impossibile esserlo) ma per lo meno sicuri di quanto si sta affermando.

Auspicare con cadenza quotidiana nuovi lockdown, dando vita a un martellamento fastidiosissimo alle orecchie delle tante persone già chiamate a fare immensi sacrifici, risulta quanto mai sconsiderato. Anche pronosticare ondate a casaccio è ormai diventato uno sport nazionale. “È in arrivo la terza ondata“, si sente spesso ripetere, in questi giorni, nei salotti televisivi. Il fatto è che non sappiamo neppure quante ondate ci sono state, visto che ognuno ha un’opinione differente. C’è chi, come Roberto Speranza, parla di una seconda ondata prolungata mai finita, e chi, da gennaio a oggi, vede ovunque prodromi di una terza ondata. Insomma, a distanza di un anno dallo scoppio della pandemia, l’Italia brancola ancora nel buio, naviga in acque tempestose senza una bussola e non sa bene che cosa fare per rimettersi in careggiata.

La paura che genera paura

Da un mese abbondante non si parla più di Covid, bensì delle sue varianti. La “variante inglese”, la “variante sudafricana”, la “variante brasiliana” sono entrate nel lessico comune. Sono proprio queste, a detta degli esperti più contagiose rispetto alla forma tradizionale del Sars-CoV-2, ad aver provocato un balzo dei contagi. E quindi il prolungamento delle misure restrittive, se non l’attuazione di ulteriori divieti. Abbiamo assimilato le dichiarazioni ripetute a mezzo stampa dagli esperti. Ma, precisamente, su che cosa si basano queste affermazioni?

Si dirà: il comitato tecnico scientifico, e i tanti scienziati che abbiamo imparato a conoscere in tv, elaboreranno i loro pareri sulla base di evidenze scientifiche, studi, test e risultati di laboratorio. Il punto è che, se diamo un’occhiata ai dati diramati dai siti istituzionali, non sembra di essere in una situazione così apocalittica come alcuni la stanno descrivendo. Certo, il Sars-CoV-2 ci ha insegnato che gli scenari possono mutare nel giro di pochi giorni. Ma vale la pena chiudersi a riccio soltanto per paure ipotetiche?

In tal caso si dirà: meglio prevenire nuovi contagi e nuove morti che non far finta di niente. Una risposta del genere non ha ragion d’essere, visto che nessuno si sognerebbe mai di scegliere tra le due opzioni citate. I Paesi occidentali più lungimiranti nell’affrontare l’emergenza Covid, infatti, sono quelli che sono riusciti a trovare una perfetta via di mezzo tra la prevenzione del rischio e la ripresa della quotidianità. Non quelli che hanno fatto finta che il virus non esistesse (gli Stati Uniti di Donald Trump), e neppure quelli che si sono trincerati dietro lockdown e divieti (Italia).

Numeri emblematici

Abbiamo parlato di dati. Vediamoli, allora, questi dati. Sono pubblici, nel senso che chiunque può accedere al sito dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, in stretta relazione con il Ministero della Salute, e aggiornarsi sulla situazione sanitaria. Ci sono alcune regioni più in affanno di altre, come ad esempio Umbria e Marche, ma nessuna regione ha raggiunto i livelli di un anno fa, quando veramente i posti letto in terapia intensiva scarseggiavano quasi ovunque. L’obiezione che alcuni possono fare è la seguente: si attuano misure restrittive proprio per scongiurare questo rischio. Peccato che i lockdown nazionali si siano rivelati inutili alla causa, e che certe restrizioni rischiano di bloccare l’economia ma non la diffusione del virus.

Ma torniamo ai numeri. Fino a poco fa, c’erano alcune soglie considerate sacre. Ad esempio, il famigerato 30% dei posti di terapia intensiva occupati da pazienti Covid da non superare. Ebbene, oggi ci attestiamo intorno al 24%. Anche l’altra soglia, il 40% relativo ai posti letti in area non critica occupata dai pazienti Covid, è a distanza di sicurezza (29%). Il numero dei ricoverati in terapia intensiva è più o meno costante, tranne sporadiche eccezioni, dallo scorso novembre. Capitolo terapie intensive: gli ingressi attuali sono 178 contro i 217 di inizio dicembre.

Infine, il rapporto tra casi diagnosticati e le persone testate è sceso rispetto all’inizio di gennaio, e si è, da più di un mese, si è fin qui mantenuto stabile. No, il pericolo non è passato, ma non ha senso evocare l’apocalisse imminente. Piuttosto, con serietà e dedizione, gli esperti dovrebbero trovare un modo per consentire alle persone di tornare a vivere, seppur con tutte le precauzioni del caso, e non solo sopravvivere.