Sono passati quasi dieci mesi da quando abbiamo sentito parlare del nuovo coronavirus, un virus sconosciuto che ha avuto come suo primo epicentro globale la città di Wuhan, in Cina. Gli scienziati non sanno spiegare l’origine dell’agente patogeno (è naturale o artificiale? Il dibattito è aperto) e non conoscono molti aspetti della malattia che provoca, il Covid-19, mentre gli studi sul vaccino devono ancora dare i loro frutti.

In mezzo a mille incertezze (ad esempio quanti sono davvero i contagiati e i morti nel mondo?) e ad altrettante incognite (le mascherine aiutano a prevenire i contagi? Quanto dura l’immunità? Basta un distanziamento sociale di un paio di metri?), c’è da considerare la possibile mutazione del virus. Già, perché tutti i virus, adattandosi a un nuovo ambiente di vita, si abituano alle condizioni di quello specifico ambiente.

Nel marzo 2020, ovvero in piena prima ondata, uno studio cinese ipotizzava come il Sars-CoV-2 fosse mutato, dando vita a due ceppi tra loro distinti. Il primo, il ceppo L, sarebbe stato il più diffuso (70% circa dei casi) e con la più elevata trasmissibilità; il secondo, il ceppo S, sarebbe invece stato il più primitivo. Quell’ipotesi era tuttavia stata stroncata dalla comunità scientifica: pochi tamponi, studio non attendibile. Nel frattempo sono passati diversi mesi, abbiamo imparato a convivere con il virus, e gli esperti hanno ripreso a parlare di mutazioni.

Quale mutazione?

Ebbene sì: come abbiamo detto, i virus sono in grado di mutare. In ogni caso le mutazioni non sono quasi mai vantaggiose per il virus stesso. Anzi: il più delle volte possono essere indifferenti o dannose per l’agente patogeno. Scendendo nel dettaglio, i virus a Rna, come lo sono i coronavirus, ampia famiglia della quale fa parte anche il Sars-CoV-2, hanno un’altissima frequenza di mutazioni. Mutazioni che avvengono per un motivo ben preciso: durante il processo di replicazione del virus avvengono alcuni errori di ricopiatura del codice genetico.

In generale le mutazioni non cambiano le carte in tavola. Certo è che il nuovo coronavirus è qualcosa di sconosciuto, dunque guai a fare proclami. È pur vero che, solitamente, le mutazioni fanno sparire le varianti più pericolose di un virus, lasciando in circolazione soltanto le forme più “soft”. Quelle, per intendersi, che sono in grado di infettare gli organismi senza ucciderli. Volendo rispondere alla domanda di base (il Sars-CoV-2 è mutato?), la risposta è sì: il nuovo coronavirus è mutato, anche se non sono state trovate tracce di evidenti mutazioni che abbiano avuto un impatto sull’evoluzione clinica della malattia.

Da questo punto di vista è interessante leggere quanto scritto dallo European Centre for Sisease Prevention and Control (Ecdc): “Nessuna prova attualmente supporta che le mutazioni accumulate dall’introduzione del virus SARS-CoV-2 nella popolazione umana abbiano causato una maggiore gravità della malattia”. Nonostante questo, prosegue l’Ecdc, una variante con una delezione di 382 nucleotidi circolante a Singapore da gennaio a marzo 2020 è stata associata a una ridotta gravità della malattia. Questa variante non è tuttavia stata trovata “a Singapore o altrove da allora”.

Gli ultimi studi

Lo stesso Ecdc ha sottolineato come esistano altre prove capaci di indicare come la variante del virus che trasporta una mutazione (sostituzione da aspartato a glicina nella posizione 614) nella glicoproteina spike, ma non situata nel dominio di legame recettore della proteina, “possa influenzare la trasmissibilità del virus”. Tradotto: è possibile che ci sia stata una mutazione che abbia alterato la trasmissibilità del Covid.

Per capire se in un virus ci sono state mutazioni è importante saper leggere (e ricostruire) il suo “albero genealogico“. Peccato che nel caso del Sars-CoV-2 l’albero sia molto recente o, nella peggiore delle ipotesi, incompleto. La prima sequenza completa del genoma del virus, infatti, è stata prelevata da un paziente che lavorava nel mercato ittico di Wuhan, ricoverato lo scorso 26 dicembre. È altamente probabile che prima di lui possano esserci stati altri infetti. Chissà quanti, chissà da quanto.

Secondo quanto riportato da New Scientist, sarebbero state trovate prove della mutazione del nuovo coronavirus. La prima risalirebbe allo scorso 17 gennaio, nella provincia cinese dello Yunnan, la seconda un paio di giorni dopo negli Stati Uniti. I ricercatori hanno comunque constatato come la mutazione di questo virus sia molto lenta. Un’analisi effettuata da un team del Walter Reed Army Institute of Research di Silver Spring, nel Maryland, ha sostenuto che il virus, da dicembre a oggi, si sia evoluto “minimamente”. Non solo: il genoma del Sars-CoV-2 sarebbe stabile. Nonostante questo, dall’inizio della pandemia, si sarebbero registrate sei mutazioni in un genoma da 30mila basi. Detto altrimenti: il virus muta, anche se molto lentamente.