Già da qualche giorno si è tornato a parlare di influenza suina, un argomento divenuto repentinamente attuale dopo la scoperta in Cina di un nuovo ceppo definito “potenzialmente pandemico”. Una notizia, quest’ultima, che ha attirato subito timori e curiosità visto l’attuale periodo segnato dalla pandemia da coronavirus sviluppatasi all’inizio di questo 2020 proprio nel Paese asiatico. L’influenza suina ha già fatto tremare il mondo in anni più recenti: a differenza di quanto si possa credere, la prima vera pandemia del XXI secolo non è stata dettata dall’emergenza coronavirus del 2003, bensì proprio da un virus riconducibile all’influenza suina denominato A/H1N1 il quale, tra il 2009 ed il 2010, ha rischiato di far vivere al pianeta gli stessi scenari visti in questi mesi di emergenza.
Cos’è il virus H1N1
È stato nell’aprile del 2009 che si è sentito parlare per la prima volta del nuovo virus influenzale di tipo A/H1N1 in Messico. Fino ad allora, il virus prima conosciuto come influenza suina, non si era mai manifestato nell’uomo. Il virus suino si è diffuso sugli esseri umani a seguito dei contatti ravvicinati tra gli stessi e i maiali. Così è avvenuto il salto di specie, con l’agente patogeno che ha iniziato ad essere trasmesso da persona a persona. Si notava, tra le prime persone colpite in maniera grave, un’infezione virale acuta in grado di aggredire l’apparato respiratorio e che potrebbe essere scambiata per un’influenza stagionale. I sintomi sono grossomodo simili ma con maggiore rischio di complicazioni: febbre, tosse, mal di gola, naso che cola e alto rischio di polmonite acuta. In alcuni casi anche vomito e diarrea. Come per l’influenza stagionale, anche in questo caso il virus si trasmette attraverso le goccioline prodotte da una persona infetta, con lo starnuto, i colpi di tosse, ma anche venendo a contatto con oggetti sui quali si è depositato il virus. Toccando prima queste superfici e poi, con gesti inconsci, naso e bocca, la possibilità di contrarre il virus è alta.
Dichiarazione di Pandemia nel giugno 2009
L’epidemia ha quindi preso il suo corso nel mese di aprile del 2009. Dopo i primi casi isolati, la diffusione è stata rapida. La ricerca scientifica in quella fase confermava che l’epidemia scatenata dal nuovo sottotipo del virus A/H1N1, non era mai stata identificata fino ad allora né tra i suini né sull’uomo. Seguendo quindi le procedure stabilite dal regolamento sanitario internazionale, il 25 aprile di quell’anno, il direttore generale dell’Oms Margaret Chan, ha dichiarato che la situazione rientrava in un caso di “emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale”. Solamente ad aprile i casi avevano colpito 9 Nazioni: Messico, Stati Uniti, Austria, Canada, Germania, Israele, Nuova Zelanda, Spagna e Gran Bretagna.
A maggio erano già 20 i Paesi che si erano imbattuti in questa difficile circostanza, Italia compresa. A dover fare i conti col virus sono state quindi anche Austria, Canada, Cina, la Regione amministrativa speciale di Hong Kong, Costa Rica, Colombia, Danimarca, El Salvador, Francia, Germania, Irlanda, Israele, Italia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Spagna, Svizzera e Regno Unito.
Il mese successivo, cioè l’11 giugno, l’Oms ha dichiarato ufficialmente lo stato di pandemia determinata dal nuovo virus influenzale. Da qui il passaggio alla Fase 6 dei livelli di allerta. A quella data le persone affette dal virus erano 28.774 e i morti 144.
L’influenza suina sotto il profilo mediatico
La dichiarazione di pandemia da parte dell’Oms ha inevitabilmente acceso i riflettori sulla situazione a livello sanitario. In tutto il mondo si è iniziato a parlare dei pericoli connessi al virus ed alla sua diffusione a livello planetario. Questo ha contribuito ad orientare le scelte di numerosi governi, a partire da quello degli Stati Uniti, Paese più colpito dall’emergenza. Ma anche in Europa, a partire soprattutto dall’estate del 2009, i media hanno dedicato molto spazio ai vari aggiornamenti che provenivano dal fronte sanitario. La situazione si è avvicinata di molto a quella riscontrata sei anni prima, in occasione dell’emergenza sanitaria riguardante la diffusione, soprattutto in Asia, del virus Sars Cov.
Anche in quell’occasione ampio spazio è stato dato alle possibili conseguenze relative al virus ed ai rischi per la salute, specialmente quando l’epidemia ha varcato i confini della Cina, da cui si è diffusa a partire dal novembre del 2002, per giungere in altri Paesi asiatici ed in Canada. Dopo che il 14 luglio del 2009 l’Oms ha dichiarato l’impossibilità di arrestare l’H1N1, avvertendo i governi della necessità di fornirsi quanto prima di un vaccino, il mondo mediatico ha dedicato sempre più spazio all’influenza suina.
In prossimità dell’arrivo dell’autunno, dove era previsto il picco della pandemia, molte campagne mediatiche sono state lanciate a favore della prevenzione del contagio: dai comportamenti da attuare, passando per le informazioni aggiornate dalle varie autorità sanitarie, nella seconda metà del 2009 i media hanno dedicato molta attenzione alle dinamiche del virus. L’opinione pubblica, dal canto suo, in Europa come negli Stati Uniti si è mostrata spaventata dall’idea di dover convivere con una pandemia potenzialmente ancora più aggressiva.
Al contrario di quanto poi accaduto nel 2020 però, stili di vita ed abitudini non hanno subito variazioni: soltanto poche persone complessivamente hanno usato mascherine od altri dispositivi di protezione nella vita di tutti giorni, allo stesso modo luoghi di aggregazione e di svago non sono stati abbandonati. Gli unici elementi da sottolineare da questo punto di vista hanno riguardato invece le abitudini alimentari: in diversi Paesi il consumo di carne di maiale nel 2009 è diminuito drasticamente, tanto che in Italia ad esempio sono dovute intervenire a più riprese le associazioni di categoria per invitare la gente a non farsi prendere dal panico ed a consumare senza alcun problema i prodotti di origine suina.
L’attenzione si è poi sgonfiata in autunno, quando il tanto temuto picco si è rivelato molto meno pericoloso di quanto preventivato. La registrazione di sempre meno casi, in nord America come in Europa ed in Asia, ha fatto sì che l’H1N1 ottenesse uno spazio più ridotto nei vari circuiti mediatici. E questo discorso è valso anche per i social media, i quali proprio a cavallo tra il 2008 ed il 2009 hanno iniziato ad espandersi ed a divenire sempre più popolari nelle condivisioni delle notizie.
Qualche anno più tardi, uno studio britannico pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health ha evidenziato la possibilità relativa al fatto che molte notizie sull’influenza suina siano state rese più allarmistiche a causa delle indicazioni date da alcuni accademici. In particolare, lo studio reso pubblico nel 2013 ha puntato il dito contro presunti conflitti di interessi di scienziati e ricercatori: “Abbiamo selezionato 425 articoli da testate di ogni tipo catalogandoli in base alle fonti citate – ha spiegato nello studio la coordinatrice Kate Mandeville, del Dipartimento di sviluppo e salute globale della London School of Hygiene and Tropical Medicine – alla valutazione di quale fosse il rischio per la popolazione secondo ciascuna fonte e dall’atteggiamento nei confronti di vaccini e farmaci antivirali. Ma poi abbiamo anche esaminato quali potessero essere i conflitti di interesse degli accademici intervistati, secondi solo ai portavoce ministeriali come fonte di informazione, e abbiamo scoperto che il 30 per cento di loro riceveva denaro a vario titolo dalle aziende produttrici di antivirali o vaccini”.
Uno studio, quello del 2013, che in parte ha confermato un’inchiesta giornalistica del 2012 condotta dal BMJ e dal Bureau of Investigative Journalism, secondo cui è emersa una sproporzione tra il vero pericolo generato dall’HN1N ed i toni allarmistici espressi in varie occasioni da accademici e studiosi. L’Oms ha replicato a queste accuse difendendo la scelta di dichiarare lo stato di pandemia nel giugno del 2009, una decisione definita come “basata su chiari criteri epidemiologici e virologici”. All’inizio del 2010 in ogni caso gli articoli ed i servizi dedicati all’influenza suina sono ulteriormente calati, fino ad uscire quasi del tutto di scena nella primavera successiva.
L’influenza suina in Italia
I primi casi sospetti nel nostro Paese si sono verificati nell’aprile del 2009, in linea quindi con l’emersione del virus in Messico e nei luoghi dei primi focolai. Una donna proveniente da San Diego, in particolare, il 23 aprile 2009 è stata ricoverata a Venezia per sintomi sospetti, il tampone tuttavia ha dato esito negativo. Il primo paziente positivo all’H1N1 invece si è avuto il 2 maggio 2009: si trattava di un paziente ricoverato all’ospedale di Massa, successivamente guarito. Tra la primavera e l’inizio dell’estate anche in Italia è stata data ampia attenzione alla pandemia generata dalla suina, ma l’allarme vero e proprio si è avuto soltanto ad agosto.
Fino al mese di luglio infatti, si contavano nel nostro Paese meno di 300 persone contagiate ma nessuna di esse era in gravi condizioni. Il 29 agosto invece, un ragazzo positivo all’H1N1 è entrato in coma all’ospedale di Monza e per la prima volta il virus portava importanti complicazioni nella salute di un paziente. Il 4 settembre invece, un cittadino napoletano di 51 anni è stato il primo morto ricollegabile all’influenza suina, anche se gli stessi medici hanno sottolineato la circostanza secondo cui il paziente presentava già gravi patologie pregresse. Pochi giorni dopo invece, una donna di 46 anni positiva al virus ma senza altre patologie ed apparentemente senza problemi di salute è deceduta all’ospedale di Messina. Dopo questo decesso, l’attenzione mediatica in Italia è divenuta molto importante, con l’allora governo Berlusconi IV che ha innalzato il livello di allerta.
Come accaduto nel resto del mondo, già in autunno l’epidemia ha subito un forte rallentamento, nei primi mesi del 2010 dell’emergenza si è parlato molto poco. Il 2 aprile del 2010 il Ministero della Salute ha fatto sapere di non avere registrato nuovi contagi e di non avere più positivi attivi ricoverati negli ospedali. Il bilancio finale in Italia è stato di 439.779 contagiati e di 229 morti.
La fine della pandemia
Era il 10 agosto del 2010 quando il direttore generale dell’Oms ha dichiarato la fine della pandemia facendo scaturire di conseguenza la fase post pandemica. Quest’ultima fase è quella in cui l’influenza torna a livelli “normali”. Un bilancio importante quello che è stato tracciato alla fine della fase pandemica con più di un milione e 600mila persone affette dal virus e 18.500 colpite a livello mortale. Il virus non ha risparmiato giovani e meno giovani, colpendo in Italia soprattutto la popolazione di sesso maschile. In quel contesto è stato elaborato un vaccino ma i dubbi e le perplessità sulla sua efficacia e sicurezza non sono mai mancati. Il risultato è stato che la sua somministrazione è stata applicata a pochi casi rispetto a quelli previsti, anche perché il virus nel mentre colpiva sempre meno persone fino a toccare i livelli minimi.
Il virus H1N1 oggi
Dopo quell’anno non si è più sentito parlare del virus H1N1 se non per alcuni casi non ritenuti “degni” di nota. Dopo un lungo periodo di silenzio, in Italia si è tornati a parlare di questo tipo di influenza durante l’inverno appena trascorso, in concomitanza con il coronavirus. Nello specifico, i casi sono stati registrati in Sicilia, tra Agrigento e Canicattì. Una decina di persone sono risultate positive all’influenza suina e alla polmonite Klebsiella. Altri casi sono stati riscontrati invece nella provincia di Enna, dopo l’effettuazione di tamponi che miravano invece a riconoscere la presenza del coronavirus su alcuni soggetti.
L’influenza quindi continua a correre, non è del tutto scomparsa. E qui si riscontra una diversità rispetto all’epidemia di Sars del 2003, il cui virus è stato quasi del tutto debellato nell’estate di quell’anno prima di scomparire definitivamente l’anno successivo. L’H1N1 non ha generato quell’emergenza pronosticata nel 2009, ma è ancora oggi in circolazione seppur i casi di contagio appaiono non destano particolare allarme. Una circostanza che, secondo una parte della comunità scientifica, potrebbe riguardare anche il destino dell’attuale coronavirus: l’agente patogeno potrebbe non essere debellato, ma circolare per anni senza però provocare nuovi allarmi.