Il 17 novembre del 2019, si registra in Cina il primo contagio di Covid-19. I media iniziano a parlare di una “strana polmonite” che, poco a poco, colpisce la popolazione dello Hubei. Nessuno può immaginare ciò che accadrà nei mesi a venire. Il virus si muove velocemente, troppo. Xi Jinping dichiara guerra al “demone” del coronavirus, ma gli sforzi cinesi – arrivati dopo ritardi e mancanze – non bastano a fermare il contagio. In pochi mesi, il nuovo coronavirus è in Germania, Italia, India e Stati Uniti. La peste del XIV secolo ci mise 16 anni per arrivare in Europa. Il Covid-19 riesce a fare lo stesso percorso in pochi mesi. I tempi sono cambiati, gli scambi tra Paesi, anche lontanissimi, sono sempre più frequenti e, soprattutto, veloci. E così il virus è libero di correre.
L’11 marzo del 2020, l’Oms dichiara la pandemia: “Nei giorni e nelle settimane a venire, prevediamo che il numero di casi, il numero di decessi e il numero di paesi colpiti aumenteranno ancora di più – annuncia il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus – L’Oms ha valutato questo focolaio 24 ore su 24 e siamo profondamente preoccupati sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Abbiamo quindi valutato che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia. Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione”. Il Covid-19 diventa così un problema globale. Questo è ciò che, ad oggi, sappiamo del virus. Questo e poco altro. Riusciamo a ripercorrerne la nascita e la diffusione, ma non sappiamo ancora quando uscirà dalle nostre vite.
La Storia, però, può esserci d’aiuto. Un articolo del New York Times del 10 maggio scorso (qui la traduzione di Internazionale) individuava due momenti fondamentali per dichiarare conclusa una pandemia: “La fine sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia”. A che punto siamo adesso? Difficile dirlo con certezza. Durante la scorsa estate, sembrava che in Italia il virus avesse perso la propria spinta e fosse meno pericoloso. Da metà maggio fino alla fine di settembre, infatti, i contagi sono stati nell’ordine di poche centinaia/migliaia al giorno, le terapie intensive erano stabili e i decessi al minimo. Nelle ultime settimane, seguendo il trend europeo, il numero delle persone contagiate in Italia è però schizzato oltre gli 11mila (di cui il 95% asintomatiche, come ha affermato il virologo Giorgio Palù), le terapie intensive si stanno lentamente riempiendo e il numero di morti risulta stabile. La situazione attuale non è paragonabile a quella dello scorso inverno, come ha spiegato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Non siamo a marzo, dobbiamo adottare scelte proporzionate e ponderate”. Ad oggi, l’obiettivo del governo è quello di contenere il virus in modo tale che l’impatto sulle strutture sanitarie sia come un’onda piccola e costante e non come uno tsunami che tutto travolge. Perché forse, la cosa migliore da fare è imparare a convivere con il virus, smorzandolo il più possibile e riducendo al minimo l’impatto sugli ospedali.
Il secondo modo, forse un po’ brutale, per dichiarare la fine di una pandemia è rappresentato dalla popolazione che, stanca dell’epidemia, decide di convivere con il virus. Secondo Allan Brandt, storico di Harvard citato dal New York Times, questo scenario potrebbe avverarsi con il Covid-19: “Come evidenzia il dibattito sulla riapertura, le discussioni a proposito della cosiddetta fine della pandemia non sono determinate dai dati medici e sanitari, ma dal processo sociopolitico”. La prima cosa da fare per accelerare la fine del coronavirus è raccontare ciò che sta accadendo in modo chiaro, senza però cedere a inutili allarmismi. Ci troviamo certamente di fronte a un virus complesso, ma il Covid-19 non è la peste. A proposito: questo morbo, che in diverse occasioni ha decimato la popolazione mondiale, ci insegna una cosa molto importante: le malattie vanno e vengono. A volte in modo misterioso. La “morte nera” non è infatti sparita, ma si è solo momentaneamente ritirata: “Negli Stati Uniti – riporta il New York Times, la malattia è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può essere trasmessa agli essere umani”. Recentemente, alcuni casi si sono registrati anche in Cina. “La peste” – fa notare Giuseppe Pigoli ne I dardi di Apollo (Utet) – “non è mai stata debellata in modo radicale. In un rapporto dell’Oms del 2000 sono stati elencati oltre 34mila casi in 24 nazioni nell’arco di 15 anni. Soprattutto dagli anni Novanta si è assistito ad una recrudescenza del male, al punto che è stata fatta rientrare nel novero delle malattie ri-emergenti”.
L’influenza spagnola
Molti hanno paragonato il Covid-19 all’influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1920, infettò 500 milioni di persone, uccidendone (secondo alcune stime) 50 milioni. A distanza di cento anni, non si sa ancora dove sia nato questo virus. Le ipotesi sono le più disparate: c’è chi ritiene che si sia inizialmente diffuso nella contea di Haskell in Kansas e portato dai soldati americani in Europa e chi sostiene che, a far da super diffusori, furono 96mila lavoratori cinesi infetti inviati sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale per aiutare le truppe inglesi e francesi. Come fa notare Pigoli nel volume citato, “la malattia si presentava come una ‘banale’ influenza: febbre, dolori alle articolazioni e debolezza. Nel volgere di pochi giorni però il quadro clinico subiva un peggioramento drammatico: la febbre conosceva un brusco rialzo e comparivano muco e sangue nei bronchi che ‘annegavano’ le persone colpite portando rapidamente a morte individui sino a poco prima sani”. Una descrizione, questa, che ricorda molto il Covid-19.
Contrariamente a quanto si possa pensare, però, ad essere colpiti non furono le persone più fragili e gli anziani, come il coronavirus, ma uomini tutto sommato giovani. Stanchi, sporchi e sfiniti dal fango delle trincee, i militari furono il bersaglio preferito del morbo, che infatti ne inghiottì a migliaia. Nel maggio del 1918, i tassi di mortalità toccarono il 70%. Fu l’inizio del massacro: tornando a casa, i reduci portarono con sé il morbo, che colpì anche i loro parenti: “Le cronache parlano di funerali celebrati di continuo, di persone che portavano mascherine protettive e di intere famiglie colpite, segregate in case di cui le forze dell’ordine sorvegliavano le porte”. Dopo due anni, la “spagnola” sparì all’improvviso. Fa notare Pigoli che “i virus trovano la propria ragione di sopravvivenza camuffandosi per sfuggire agli anticorpi. La storia di queste mutazioni è ricca di episodi che ci rendono chiaro come questo agente infettivo sia pressoché invincibile e di come, nonostante ogni anno le autorità sanitarie approntino nuovi vaccini, saltuariamente si verifichino epidemie virulente, difficilmente controllabili, come quelle avvenute nel 1957, 1968 e 1977”.
I virus, dunque, vanno e vengono. E sono, come ha scritto Andrew Nikiforuk ne Il quarto cavaliere, “un promemoria mutante di come è la vita”.