Riflettori puntati sulla Cina. Archiviata l’epoca della Zero Covid Policy, il governo cinese è alle prese con una nuova fase della lotta contro la pandemia. L’ondata di infezioni da Covid che ha attraversato la Repubblica Popolare Cinese potrebbe presto raggiungere il picco in alcune delle più grandi città del Paese, tra cui Shanghai e Pechino. Dall’esterno, si ha la percezione di uno scenario critico. Che cosa sta succedendo oltre la Muraglia? Quali rischi ci sono? Ne abbiamo parlato con Emanuele Montomoli, responsabile scientifico di Vismederi srl e professore ordinario di igiene e sanità pubblica presso l’Università di Siena.
Quanto è grave la situazione Covid in Cina?
Per quello che si percepisce, sembra che ci sia un’ondata abbastanza importante. Le informazioni provenienti dalla Cina sono però molto filtrate e da prendere con le molle. È difficile dire con certezza assoluta cosa sta accadendo. Del resto non sappiamo nemmeno il numero preciso di casi, come sono distribuiti, se sono provocati da una nuova variante o da quelle tradizionali. Lo scenario è difficile da interpretare nella sua interezza.
Quanto bisogna preoccuparsi?
Nonostante lo scenario sia difficile da interpretare nella sua interezza, direi non più di tanto.
Per quale motivo?
In Europa e negli Stati Uniti siamo in un quadro ben definito. La maggior parte della popolazione è pluri vaccinata e molte persone sono anche state contagiate e poi guarite. Tra vaccinazioni e infezioni naturali abbiamo dunque una base immunitaria importante. Anche di fronte ad una variante diversa, dunque, non mi aspetto che questa possa provocare le stragi che abbiamo visto nelle iniziali ondate.
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Qual è il problema della Cina? Perché ci sono così tanti contagi?
Innanzitutto avevano un tasso di copertura vaccinale minore rispetto a quello registrato da noi. Dopo di che hanno realizzato la campagna vaccinale affidandosi ai loro vaccini, che hanno un tasso di efficacia inferiore rispetto a quello dei nostri vaccini. La Cina ha però anche un vantaggio.
Quale?
Il loro vantaggio, che adesso gli si sta ripercuotendo contro, è il poter contare ancora su un monitoraggio strettissimo.
È anche per questo che in Cina si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un cataclisma totale?
Hanno una rete di sorveglianza capillare. In Europa e negli Stati Uniti ormai il monitoraggio non viene quasi più effettuato. In Cina, al netto dell’abbandono della Zero Covid Policy, viene fatto ancora in maniera molto stretta. In questo modo le autorità cinesi rintracciano i casi più evidenti ma anche tutto il sommerso che normalmente non finirebbe nei radar.
A proposito della Zero Covid Policy, a suo avviso ha fatto bene la Cina ad abbandonare questo modello?
Sì. La Zero Covid Policy non aveva senso. In un territorio vasto come la Cina era ed è impossibile controllare una patologia o un virus, pensando di ridurre la minaccia a zero casi. In un contesto mondiale, inoltre, la Cina si sarebbe sempre più isolata per diventare baluardo di un modello di lotta al virus obsoleto, costoso e inefficiente.
Ha senso fare i tamponi ai viaggiatori provenienti dalla Cina?
Dal punto di vista epidemiologico, più controlli ci sono e meglio è. Dal punto di vista umano e morale, dopo anni di lockdown e chiusure, mi rendo conto che un modus operandi del genere possa sembrare eccessivo. Tuttavia non biasimo i governi costretti a monitorare i passeggeri che provengono dalla Cina. Qui serve però una riflessione.
Prego
Dal momento che diciamo che la Cina ha un problema con il Covid è scontato che ripartono controlli e monitoraggi sui viaggiatori che provengono da quel Paese. Quando accendiamo la miccia è lecito aspettarsi decisioni del genere. Leggendo le notizie sulla Cina, anche se parziali e frammentate, come potrebbe un governo non prendere simili contromisure? Pensiamo a cosa potrebbe succedere se, in assenza di monitoraggio, fra 15 giorni dovessimo scoprire l’esistenza di una variante super aggressiva. A quel punto i governi che non hanno effettuato tamponi finirebbero dritti nel tritacarne, accusati di non aver adeguatamente monitorato la situazione.
Esiste la possibilità che un viaggiatore proveniente dalla Cina possa innescare un nuovo focolaio?
Il rischio esiste. Ma non riguarda soltanto un Paese, in questo caso la Cina, e, soprattutto, non lo si azzera facendo i tamponi a chi arriva in Italia dalla stessa Cina. Nel caso in cui oltre la Muraglia dovesse davvero circolare una variante molto aggressiva non basterebbe fare i tamponi solamente a chi viene da lì.
In che senso?
Fare i tamponi soltanto ai viaggiatori che arrivano dalla Cina, e non bloccare, ad esempio, chi viene dalla Cina, ma atterra in Italia dopo aver trascorso dieci giorni in Malesia o in Qatar, non azzera nessun rischio. Sarà questione di pochi giorni o al massimo settimane ma, nell’eventualità – ancora non accertata – che esista una variante pericolosa, prima o poi quella variante arriverà ugualmente anche da noi. Del resto questo virus ha raggiunto tutte le zone del mondo, anche i territori più remoti.
Quanto sta avvenendo in Cina può avere ripercussioni, nel medio e lungo periodo, sulla nostra catena di approvvigionamento farmaceutica?
Sì, ma la questione non riguarda soltanto i singoli farmaci ma anche le materie prime. Nessun Paese al mondo può realizzare qualcosa in ambito farmaceutico in totale indipendenza.
Si spieghi meglio
Immaginiamo che la filiera di un qualsiasi farmaco sia una catena. Ebbene, in questa catena c’è sempre un anello che si chiama Cina. È chiaro che l’urgente bisogno di un farmaco specifico in Cina possa creare un vuoto in Europa. Ma andrei oltre il farmaco. La Cina detiene la partenza di qualsiasi cosa. Restando nel nostro ambito, il vaccino non è formato soltanto dal principio attivo. Per fare vaccini e farmaci servono boccini, disinfettante, siringhe, plastica. Qualcosa di cinese c’è sempre in quello che serve. E in momenti di crisi acuta può rivelarsi problematico.