Sono molti i misteri che ruotano attorno al Covid-19: quando è nato, dove, e come si è verificato il cosiddetto spillover, il salto di specie, ovvero il passaggio del virus dall’animale all’uomo. A lungo, gli esperti hanno affermato che, molto probabilmente, il virus era nato a Wuhan, una città per i nostri standard enorme, che si trova nella provincia dello Hubei, non lontano dal Guandong, una regione molto particolare della Cina. Una terra al contempo benedetta – è infatti uno dei motori della crescita del Dragone – e maledetta in quanto molti focolai epidemici sono nati proprio qui.
Per quasi un anno, la vulgata è quindi stata una sola e prevedeva che il virus avesse passaporto cinese. Una cosa non da poco. Questa epidemia sta infatti provocando danni enormi – sia a livello di perdite umane sia a livello economico – a tutto il mondo. Se davvero la Cina è colpevole, allora, questo è per esempio il pensiero di Donald Trump, dovrebbe pagare per i danni che sta provocando a molti Stati. Rivelare qual è davvero l’origine del virus ha dunque un forte significato non solo a livello epidemiologico, ma anche politico.
Per questo motivo, negli ultimi tempi in Cina stanno uscendo diversi report volti a creare una nuova narrazione secondo cui il virus non sarebbe nato nell’impero celeste, ma altrove. L’ultima ipotesi – sostenuta da un team di ricercatori cinesi guidati dal dottor Shen Libing, dello Shanghai Institute for Biological Sciences – ritiene che il Covid-19 sarebbe nato in Bangladesh e, solo in un secondo momento, importato in Cina. Secondo i ricercatori cinesi, “sia le informazioni geografiche del ceppo meno mutato sia la diversità del ceppo, suggeriscono che il subcontinente indiano potrebbe essere il luogo in cui si è verificata la prima trasmissione da uomo a uomo di Sars-CoV-2”. E questo perché la terribile siccità che ha colpito l’India nel 2019 ha fatto sì che uomini e animali si abbeverassero dalle stesse fonti. Da qui lo spillover, il salto di specie il contagio umano. Nei primi mesi il virus si sarebbe mosso silente, a causa della bassa età media in India, fino a quando non è arrivato in Cina, esplodendo.
Ma non solo. Lo scorso giugno, per esempio, è emerso un focolaio nel mercato di Xinfadi, a Pechino. Prontamente il governo centrale ha bloccato ventinove comunità e, soprattutto, i media hanno cominciato ad affermare che il contagio sarebbe partito da un salmone importato. Uno scenario non dissimile, si è poi verificato nella città di Qingdao, nella provincia dello Shandong, dove è esploso un mini cluster tra alcuni lavoratori impegnati nell’industria della catena del freddo. Anche in questa occasione, le autorità hanno puntato il dito contro le confezioni di alimenti congelati importati dall’estero, sulle cui superfici sarebbero state rinvenute tracce di virus. Verità o propaganda? Difficile dirlo.
Un lungo studio del Global Times, pubblicato ieri, sottolineava come i pochi casi di Coronavirus che si sono registrati negli ultimi mesi in Cina, dopo la vittoria di Xi Jinping sul virus, sono da collegare alla “catena del freddo”. Il giornale cinese riporta inoltre che, “dopo uno studio approfondito del sequenziamento degli acidi nucleici e del sequenziamento del genoma virale dei pazienti Covid-19 con campioni ambientali e alimentari del mercato Xinfadi, che è stato collegato a un’epidemia di giugno, gli scienziati cinesi hanno concluso a ottobre che il coronavirus da alimenti importati sarebbe molto probabilmente la causa dell’epidemia di Pechino e che il trasporto della catena del freddo è diventato una nuova via per la trasmissione virale”. Sulla stessa scia, anche Il Quotidiano del Popolo, secondo cui “ogni prova disponibile” induce a sospettare che il coronavirus sia solo emerso e non partito da Wuhan e che la trasmissione tra persone si sarebbe verificata nel “subcontinente indiano”. Il mercato di Wuhan sarebbe dunque stato solo un “amplificatore” del contagio arrivato da fuori. Wu Zunyou, dirigente del Centro per il controllo delle malattie infettive di Pechino, sostiene inoltre che “i primi contagiati di Wuhan lavoravano nell’area del pesce surgelato del mercato Huanan”.
Ma tutto questo è possibile? Nessuno, ad oggi, ha confermato o smentito la nascita del Covid-19 in Cina. Anzi, un recente studio realizzato dall’Istituto dei tumori di Milano ha trovato delle tracce del nuovo Coronavirus tra gli italiani già nell’estate del 2019, ben prima dunque che scoppiasse a Wuhan. Siamo dunque noi gli untori del mondo? Improbabile. Anche perché, a livello statistico, molti virus sono nati in Cina, più precisamente nel Guandong.
La più temibile delle malattie, la peste, non a caso ribattezzata “morte nera“, è nata in Cina nel 1334, come ricorda Mark Honigsbaum in Pandemie. Dalla spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (Ponte alle Grazie). Da qui si mosse lentamente verso l’Occidente fino ad arrivare prima in Europa e poi in Italia, nel 1348. Stesso discorso anche per l’epidemia che scoppiò ad inizio Novecento, “molto probabilmente provocata dalla marmotta tarbagan – prosegue Honigsbaum – una specie di marmotta che si trova in Mongolia e in Siberia, apprezzata per la pelliccia pregiata, l’epidemia sembra fosse cominciata a Manzhouli, situata al confine tra Cina e Siberia, nell’ottobre del 1910, prima di diffondersi attraverso la linea ferroviaria transmanciuriana a Harbin e ad altri centri lungo il percorso. I principali responsabili furono cacciatori cinesi inesperti che, attirati in Manciuria dall’alto prezzo delle pellicce, non avevano avuto la stessa accortezza dei cacciatori manciuriani nel trattare le marmotte tarbagan malate. Con l’accorciarsi delle giornate invernali in Manciuria, i cacciatori ripresero la strada per la Cina e si mescolarono ai lavoratori agricoli che tornavano e ai ‘coolie’, affollando carrozze ferroviarie stipate e locande. Presto, gli ospedali furono sommersi di pazienti, e nel febbraio del 1911 già si contavano circa 50.000 morti. Molti corpi furono cremati o fatti saltare con la dinamite nelle fosse comuni”.
Il professor Giorgio Palù, in un’intervista all’Università di Padova, ha spiegato il perché: “Ci sono molte risaie, e gli uccelli che planano in queste zone possono essere portatori sani dell’influenza aviaria che viene trasmessa anche tramite le feci: in quegli stagni ci sono miliardi di virus, e lì vicino vengono allevati maiali e altri animali domestici, anche uccelli. Così i virus si propagano: c’è una commistione tra animali domestici e selvatici e tra loro e l’uomo”. Ma non solo. A provocare la diffusione dei virus sono anche i cambiamenti climatici, tema su cui la Cina sta facendo poco o nulla: “Il 20% dei virus è trasmesso da vettori come zanzare, zecche e flebotomi che stanno migrando a causa dei cambiamenti di temperatura, si pensi a West Nile”.
Non sappiamo ancora dove è nato il virus, ma ci sono grandi probabilità che sia nato in Cina. La partita “revisionista” di Pechino ha un unico obiettivo: togliersi anche la più piccola ombra di colpa affinché nessuno si presenti per battere cassa.