Italia e Germania sono, sotto il profilo epidemiologico, due esempi antitetici nella diffusione del Covid-19 in Europa. Nel nostro Paese l’effetto dell’epidemia è stato travolgente, con lo scoppio di due focolai a Codogno e nella bergamasca che hanno travolto la Lombardia, epicentro dell’infezione, e portato in poche settimane al superamento degli 11mila morti, mentre in Germania, a fronte di 64mila casi, i decessi registrati sono stati solo 560.
Certamente il dato tedesco è stimato al ribasso, in quanto calcola esclusivamente i casi in cui l’infezione da Covid-19 è risultata la causa determinante del decesso. Tuttavia, la minore letalità del virus in Germania non è spiegabile esclusivamente con tale artificio contabile – che dimostra la grande trasparenza italiana nella comunicazione – ma principalmente con le evidenze della diversa curva epidemiologica dei due Paesi.
Sono almeno quattro, infatti, le principali evidenze che si possono trarre dallo studio dei due casi
In primo luogo, l’Italia ha avuto due focolai di partenza dell’epidemia, come detto, in cui si è concentrata la diffusione del contagio in Lombardia. In terra tedesca il contagio è sempre stato spalmato in tutti i Land, senza che uno di essi assurgesse all’infausto equivalente della Lombardia in Italia o della regione di Madrid in Spagna.
In secondo luogo, pesa la diversa incidenza demografica dell’epidemia. In Italia l’età media degli infetti si aggira attorno ai 64 anni, 17 in più di quella tedesca. Stando alle ricostruzioni, in Germania i principali vettori del contagio sono stati i turisti rientrati dalle Alpi, in larga misura di età mediamente giovane, mentre in Italia il virus ha colpito in ospedali, case di riposo e abitazioni private una popolazione anziana estremamente vulnerabile. Secondo quanto dichiarato a La Verità da Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità pubblica all’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, la maggiore promiscuità tra giovani e anziani nelle case italiane ha favorito la diffusione del contagio: i giovani italiani passano più tempo a contatto con nonni e parenti anziani rispetto a quelli tedeschi, e questo ha favorito indubbiamente il passaggio del virus, specie attraverso il contagio asintomatico.
Inoltre, terzo punto, vi è il problema degli ospedali. Come sottolineato anche nel recente rapporto dell’Università di Harvard, l’eccessivo tasso di ospedalizzazione iniziale ha veicolato un’accelerazione del contagio in Lombardia, che ha finito per colpire soggetti deboli, dai pazienti oncologici agli immunodepressi, aumentando notevolmente il conto dei decessi. La Germania ha avuto più tempo dell’Italia per prepararsi allo choc e, complice la minore età dei ricoverati, ha potuto contare con più facilità sul fatto che le difese immunitarie dei suoi cittadini fossero il primo, essenziale antemurale.
In quarto luogo, diretta conseguenza dello scarto temporale, la Germania ha potuto utilizzare per il tamponamento e il monitoraggio dei casi il modello sudcoreano esportato, con successo, anche in Veneto, che ha ricevuto gli encomi degli studiosi di Harvard. La somma tra tamponamenti di massa, tracciamento degli spostamenti dei positivi, verifica della possibile infezione dei loro contatti e sfruttamento massiccio, nei limiti del possibile, delle cure in isolamento domiciliare ha fornito la base del successo del modello Veneto fin dalla metà di marzo.
Favorita dalla minore virulenza della malattia, Berlino ha potuto, come quinto punto, porre in essere misure per contenerla senza l’assillo di una crescita vertiginosa e rovinosa dei contagi. La somma di diversità sociali, demografiche e gestionali è un “cigno nero” nel “cigno nero” che ha ulteriormente complicato il compito italiano: a fare scuola sono stati quei modelli, quali il Veneto, in cui la pragmaticità è stata seguita sin dalle prime ore, prevenendo un disastro generalizzato.La s