Il rumore incessante delle mannaie, il vociare dei venditori, animali macellati esposti come mercanzia e ammassati su bancarelle sporche. Altri animali vivi rinchiusi in piccole gabbie, pronti per essere uccisi sul posto e venduti ai clienti. La domanda incontra l’offerta e i soldi passano di mano in mano, alimentando un giro d’affari miliardario legato soprattutto al commercio delle rare bestiole selvatiche. Di tanto in tanto qualche moneta cade a terra e si mescola al liquame che bagna il pavimento: sangue – tanto sangue – escrementi che colano dai tavoli, viscere, interiora, acqua.
Non a caso sono conosciuti con il nome di wet market, cioè “mercati bagnati” o “dell’umido”. Sono molto diffusi in Asia e, proprio da uno di questi mercati situato a Wuhan, in Cina, si pensa che possa aver avuto origine il Covid-19. Non abbiamo ancora alcuna certezza ufficiale, anche se le ipotesi degli scienziati poggiano su fondamenta apparentemente solide. Nei wet market ci sono tutte le condizioni affinché un virus presente all’interno di un animale ”serbatoio” possa fare il cosiddetto salto di specie, entrando nell’organismo umano.
La zoonosi, questo il termine scientifico esatto, sarebbe stata agevolata dal continuo mescolarsi di sangue appartenente ad animali selvatici uccisi e macellati in loco. I venditori, senza le minime precauzioni igieniche, sono i primi a essere esposti al rischio di contrarre una nuova infezione. A ruota seguono i clienti. Quindi il resto del Paese e del mondo intero.
Che cosa sono i wet market
La storia che abbiamo raccontato è la stessa che avete ascoltato più volte nelle ultime settimane. I video diffusi sui social network mostravano quasi sempre wet market come quelli appena descritti, vere e proprie bombe sanitarie a cielo aperto, nonché presunti responsabili di aver scatenato l’epidemia del nuovo coronavirus. Attenzione però, perché una ricostruzione del genere è incompleta. Già, perché i ”mercati bagnati” sono una cosa, i “wildlife market” un’altra.
https://www.youtube.com/watch?v=ajXTNXZ-KSA
Spieghiamo meglio la distinzione. I wet market sono bagnati non tanto per il sangue che ricopre i pavimenti, quanto per l’acqua che mantiene freschi i prodotti in vendita. Prodotti che, almeno ufficialmente, non dovrebbero comprendere animali rari e selvatici, come pangolini e pipistrelli per intenderci.
I “mercati bagnati” tradizionali attirano clienti desiderosi di acquistare carne “normale” appena macellata. In Asia, ad esempio, molti anziani ritengono che il manzo fresco abbia un sapore migliore rispetto a quello congelato che si trova nei supermercati. Nei wet market che rispettano la legge, al netto dell’ambiente anti igienico per gli standard occidentali, si vendono spezie, erbe, pesce e carne fresca di animali da allevamento.
Posti del genere sono molto comuni e riscuotono un certo successo. Intanto perché hanno prezzi accessibili alle tasche di tutta la popolazione, poi perché sono considerati luoghi di aggregazione, dove i cittadini possono incontrarsi per parlare tra loro. Il problema, tralasciando l’aspetto etico e igienico, è che, pur in assenza della macellazione di animali selvatici, i wet market hanno tutte le prerogative affinché possano consentire la nascita di nuovi e pericolosi virus. È successo con l’influenza aviaria H5N1, con la Sars e, probabilmente, con il Covid-19.
I wildlife market
Wet market del genere sono diffusi in Cina, a Hong Kong, in Vietnam, Malesia, Indonesia, Filippine. Ma anche in Africa, Oceania e perfino nelle Americhe: dal Messico alla Colombia, passando per gli Stati Uniti (a New York se ne contano un’ottantina). Se anche macellare sul posto polli e anatre può scatenare una zoonosi, immaginiamoci cosa potrebbe succedere quando, al posto di animali da allevamento, ci fossero bestie rare e selvatiche. Alcuni esempi? Pipistrelli, serpenti, pangolini, koala, salamandre, topi, cuccioli di lupo, pavoni, porcospini.
In questo caso i wet market si trasformano in wildlife market, ”mercati di animali selvatici”. Certo, questa è una divisione teorica. Anche perché, in realtà, all’interno di numerosi mercati bagnati si possono acquistare bestiole selvatiche di ogni tipo. Il Mercato del pesce di Huanan, a Wuhan, è considerato l’epicentro dal quale si sarebbe propagata la pandemia di Covid-19. Situato a due passi dalla stazione ferroviaria del capoluogo dello Hubei, in Cina centrale, all’interno di quel wet market si vendeva di tutto. I primi pazienti accertati, almeno ufficialmente, avevano legami con il mercato. Erano venditori o clienti.
Per capire l’atmosfera che si respira all’interno di un comune wet market, dove il lecito e l’illecito sono separati da una linea sottile, è utile ascoltare la testimonianza dello scienziato Peter Daszak: ”È un po’ scioccante andare in un mercato faunistico e vedere questa enorme diversità di animali vivere in gabbie accatastate una sopra all’altra, con un mucchio di budella estratti da un animale e gettate sul pavimento […] Questi sono luoghi perfetti per la diffusione dei virus”.
Perché non sono ancora chiusi
La domanda che molti si fanno è una: perché in Cina i wet market sono ancora aperti? Gran parte della risposta sta nella distinzione tra i wet market e i wildlife market. I primi, con nuove limitazioni e linee guida, non infrangono alcuna legge. Si limitano a vendere gli stessi cibi acquistabili nei supermercati e comunemente usati per l’alimentazione degli esseri umani L’unica differenza è che offrono tali prodotti ”freschi” e ”pronti all’uso”.
Le motivazioni principali sono quindi due. La prima: nell’enorme categoria dei wet market troviamo anche i mercati in cui si vendono gli animali da allevamento, come ad esempio i polli, e dove i rischi di una zoonosi sono limitati. Chiudere tutti i ”mercati bagnati” provocherebbe la chiusura anche di questi mercati. La seconda: i wet market danno lavoro a un elevato numero di persone, tra allevatori e venditori, ma soprattutto consentono a milioni di cittadini dotati di un reddito medio-basso di acquistare cibo a prezzi contenuti.
Dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19 la Cina ha vietato tassativamente il consumo e la vendita di carne di animali selvatici. Dall’8 aprile i wet market hanno quindi riaperto le saracinesche adattandosi ai dettami del governo. Ma gli affari non vanno più a gonfie vele. I clienti hanno paura di frequentare quelle bancarelle, ormai associate nell’opinione pubblica mondiale a qualcosa di estremamente pericoloso. Molti venditori sono preoccupati. ”Non abbiamo mai avuto così poche persone nel nostro mercato”, ha raccontato rassegnato al South China Motning Post un venditore del mercato all’ingrosso Baishazhou di Wuhan. Intanto, nel retro di molti wet martket di tutto il mondo, il sangue di animali selvatici continua a scorrere sulle piastrelle bianche.