Dopo quasi dieci anni dalla sua devastazione il museo di Mosul viene restituito alla popolazione irachena. Nel 2015 lo Stato Islamico aveva inflitto al museo ingenti danni, distruggendone preziosi manufatti storici e danneggiandone la struttura. Oggi le porte dell’edificio vengono riaperte con la mostra temporanea “The Mosul Cultural Museum: Dalla distruzione alla riabilitazione” curata dal Musée du Louvre e dal Consiglio di Stato per le Antichità e il Patrimonio (Sbah).

Il sito museale, riconquistato dall’esercito iracheno nel marzo del 2017 e rimasto chiuso al pubblico per molti anni, è tornato in vita grazie ad una partnership internazionale tra la Sbah, il Musée du Louvre, lo Smithsonian Institution, il World Monuments Fund (Wmf) e l’Alleanza internazionale per la protezione di patrimonio nelle aree di conflitto (Aliph).

Dal 2018 la partnership internazionale ha lavorato per la riqualificazione della struttura e dei suoi beni archeologici. Inoltre, dal 2020, il Wmf si è occupato anche del restauro dell’edificio, una dimora costruita negli anni 50’ ed espressione dell’architettura moderna irachena.

Era il 2014 quando le milizie del califfo Al Baghdadi conquistarono Mosul e la Piana di Ninive, prendendo così il controllo del territorio nordoccidentale dell’Iraq, dotato di uno straordinario patrimonio culturale. Venerdì 29 giugno 2014 venne annunciato nella moschea di al-Nouri la rinascita del Califfato e proclamato lo Stato Islamico dell’Iraq con Mosul capitale. Iniziò così l’opera di pulizia etnico-religiosa delle altre minoranze religiose che sfociò anche in una furia iconoclasta.

La deliberata distruzione dei siti e monumenti archeologici, testimoni di un’antica eresia, oltre alla lotta politica del potere evidenziò la fanatica visione del Califfato di distruggere i monumenti degli apostati per annientarne l’identità culturale e la storia. Ne fu un chiaro esempio la distruzione della moschea medievale costruita sulla tomba del profeta biblico Giona, nei pressi di Mosul, simbolo della convivenza pacifica delle tre grandi religioni monoteiste.

Civili iracheni tra le macerie della Moschea che ospitava la tomba di Nebi Yunus, o profeta Giona, a Mosul il 24 luglio 2014, distrutta dai miliziani dello Stato Islamico. Foto: EPA/Str.

Ma quello che a noi giunse come una scioccante pulizia identitaria di una zona culla delle civiltà nascose risvolti più materiali e ancor più tragiche storie di uomini. Il patrimonio archeologico della regione non fu solo oggetto di una furia distruttiva, ma venne utilizzato come finanziamento alle attività jihadiste. Aumentarono gli scavi clandestini condotti dall’Isis e da bande organizzate collegate all’estremismo jihadista.

In una fase storica nella quale la sola accusa di blasfemia poteva comportare la decapitazione in pubblica piazza, i militanti dello Stato Islamico rapirono e torturano membri appartenenti al mondo dell’archeologia con l’intento di acquisire informazioni su reperti archeologici di pregio. Un rifiuto significava la condanna a morte, come avvenne nel caso del famoso archeologo Khaled al-Asaad, decapitato ed esposto al centro dell’anfiteatro di Palmira in Siria, proprio per essersi rifiutato di condividere la locazione di reperti archeologici al cui recupero e restauro aveva dedicato gran parte della sua vita.

I beni trafugati vennero poi contrabbandati dai trafficanti clandestini e successivamente venduti sul mercato internazionale dell’arte avvalendosi di una capillare rete di tombaroli, intermediari e antiquari. I tesori rubati in Iraq e Siria passarono per il Libano e la Turchia, raggiungendo così i porti franchi specializzati nel mondo dell’arte, tra cui Hong Kong, Ginevra, Lussemburgo, Singapore e Pechino. I reperti, ripuliti della loro origine, sono stati poi dotati di falsi expertise per aggirare le leggi esistenti sul traffico clandestino.

È su fragili fondamenta che l’Iraq di oggi tenta di ricostruire una comune identità, una comune forza. Ed è forse proprio questa l’importanza della riapertura del museo di Mosul, dell’esposizione dei suoi beni artistici, non solo nel valore del recupero, ma soprattutto nel ritrovamento di un’identità comune che narra di una produzione e di un luogo ricco di connessioni, nei quali sono avvenuti scambi di influenze. Riscoprire la storia attraverso i suoi tesori con l’intento di ricostruire l’identità irachena di oggi dilaniata dalla guerra prima e dall’invasione dell’Isis dopo.