Il mese di novembre potrebbe essere l’ultimo atto del regime degli ayatollah in Iran. A seguito delle grandi manifestazioni popolari, iniziate contro l’aumento del costo del carburante per poi trasformarsi in proteste contro il governo, il 4 dicembre, dopo la riaccensione di Internet, il regime iraniano ha mostrato in diretta mondiale tutte le sue difficoltà. Uno fra i tanti video lanciati in rete mostra la folla che trascina un uomo apparentemente senza vita mentre attorno ci sono fumo e confusione: non si sa con precisione quante persone siano state arrestate e uccise durante le proteste, in quanto la chiusura di Internet per mano del regime e l’assenza di numeri rilasciati dal Tv di Stato hanno impedito qualsiasi forma di comunicazione ufficiale verso l’esterno. Secondo alcune organizzazioni internazionali le persone uccise potrebbero essere diverse centinaia (per Amnesty International 161 manifestanti, 366 per il sito di opposizione Kaleme, oltre 200 secondo la Bbc Persian), per la protesta più vasta contro il regime degli ayatollah e la sua legittimità da decenni.
Quella di piazza Teheran, infatti, è la protesta di migliaia di persone contro la Guida suprema Ali Khamenei, capace di gettare – passi il gioco di parole – benzina sul fuoco proprio con l’aumento del costo del carburante. Il malcontento sociale che scuote il Paese è profondo: l’Iran è affaticato dalla crisi economia, con previsioni che registrano una contrazione dell’economia del 9,5% per quest’anno e il peso delle sanzioni americane che aggrava, se possibile, i bilanci dell’export.
In aggiunta, se l’accordo nucleare firmato da Hassan Rouhani nel 2015 aveva ammorbidito la sofferenza delle società nazionali, l’uscita degli Stati Uniti di Donald Trump dall’intesa l’anno scorso è stato un colpo politico ed economico che il Paese non ha ancora del tutto assorbito. L’economia iraniana, già indebolita dalla malcauta gestione e dalle ingenti spese militari, ha visto le esportazioni di greggio scendere del 70%, a causa delle sanzioni americane, a 500mila barili al giorno. Nel 2013 i barili esportati erano 1,1 milione.
C’è poi il taglio dei sussidi statali, detonatore di sommosse da parte della popolazione delle province più povere e remote, come nelle cittadine curde al confine con l’Iraq o nelle periferie di città come Teheran e Shiraz. L’accusa al regime è mossa anche dalla critica per i milioni di dollari di denaro pubblico spesi in guerre lontane durante questi anni di regime, a partire dalla Siria, lo Yemen e Gaza. Idem per il finanziamento dei gruppi stranieri come Hezbollah in Libano. Concessioni e investimenti che hanno portato alla privazione dei servizi primari i cittadini iraniani, e di conseguenza alla loro insurrezione.
L’attacco ai simboli del regime ha fatto sì che sia Khamenei sia Rouhani adottassero un atteggiamento più morbido verso i manifestanti, chiedendo pubblicamente al potere giudiziario (controllato dalla stessa Guida suprema) di mostrare “pietà islamica”, in quanto le critiche mosse in piazza sono arrivata ora dai suoi oppositori ora da molti suoi sostenitori. Al momento, pertanto, oltre allo scenario pubblico, la conseguenza politica più rilevante è stata la frattura con la corrente riformista, che alle ultime elezioni aveva appoggiato Rouhani. Che adesso non esclude nuovi colloqui con Trump, alla ricerca di nuove sospensione delle sanzioni ora in vigore e di una via di salvezza per il Paese.