Il Senato ha promosso la risoluzione che chiedeva l’assegnazione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto in carcere nel suo Paese natale dal 7 febbraio 2020. L’ordine del giorno presentato dal Partito Democratico e sottoscritto da diversi senatori appartenenti ad altre forze politiche (M5s, Italia viva, +Europa, Lega e membri del gruppo Misto) è stato approvato con 208 sì, nessun contrario e 33 astenuti.
La questione non mancherà di impattare fortemente sulle relazioni bilaterali tra Roma e Il Cairo. Rapporti segnati negli ultimi anni sia da profonde faglie, culminate negli anni di silenzi e omertà da parte di settori delle autorità egiziane sul caso Regeni, sia da una crescente convergenza economica che ha avuto nel settore energetico, guidato da Eni, e nelle forniture militari un binario politico, strategico e industriale su cui i rapporti tra le due nazioni si sono strutturati. Questo perché troppe volte l’Italia, come ogni nazione che ha ridotta predisposizione con la politica di potenza, e le sue forze politiche hanno voluto mischiare i due terreni di gioco: il dibattito è oscillato negli anni tra le prese di posizione di chi ha chiesto un vero e proprio “embargo” al Cairo in nome della questione dei diritti umani, ad esempio ignorando ogni invito a indagare in altre direzioni (Cambridge) sul caso Regeni, e quelle altrettanto manichee e contrarie di chi riteneva semplici questioni di principio le tematiche umanitarie e proponeva invece a Roma di approfondire i legami a tutto campo col Cairo mettendo in secondo piano questioni relegate alla sfera giudiziaria.
Il “peso” della mossa italiana
In un certo senso il caso Zaki, pur non presentando i coni d’ombra di delittuosità e i depistaggi dell’affare Regeni, aggiunge un’ulteriore complicazione: Zaki è a tutti gli effetti, ora come ora, un cittadino egiziano detenuto nel suo Paese d’origine. E questo pone una questione fondamentale sui rapporti tra Roma e Il Cairo riguardo la questione della liberazione dello studente del Master Gemma dell’Unibo che si occupa di Women’s and Gender Studies: fornire la cittadinanza italiana a Zaki può aiutare ad agevolarne la liberazione? Questa domanda merita risposta soprattutto in relazione alla natura dura della carcerazione giovane nella rigida prigione di Tora, in cui si trova da quando, nel febbraio 2020, sarebbe stato trattenuto, interrogato, torturato e incriminato all’aeroporto del Cairo da parte di membri delle forze dell’ordine egiziane a causa della sua appartenenza a una rete di Ong attente ai diritti umani nel Paese. Sul caso si sono subito mobilitate varie ong internazionali e attivisti e la stessa Alma Mater di Bologna ha più volte invitato il governo di Roma a una forte presa di posizione.
Gli esponenti della diplomazia italiana osservano cauti. Nel suo discorso nell’aula del Senato, il viceministro degli Esteri, Marina Sereni, membro del Pd, ha segnalato che l’esecutivo di Mario Draghi esprime parere favorevole alla mozione. Essa richiama alla legge n. 91 del 1992 che definisce i criteri per ottenere la cittadinanza italiana e stabilisce la possibilità per il Presidente della Repubblica di concederla a uno straniero “quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”. Tuttavia, Sereni ha ricordato che l’italianizzazione di Zaki non farebbe venire meno il suo possesso della cittadinanza egiziana, e dunque la possibilità per Il Cairo di applicare in forma stringente ogni misura volta a preservare la sovranità del suo (discutibilissimo) sistema giudiziario: “C’è il rischio di effetti negativi sull’obiettivo che più ci sta a cuore, cioè ottenere il rilascio di Patrick”, ha notato la Sereni. “Insomma la concessione della cittadinanza potrebbe rivelarsi controproducente. È responsabilità di tutti fare una riflessione su questo”, ha detto il viceministro riferendosi in primo luogo ai compagni di partito.
L’impatto sugli affari affari internazionali
Come mai tanta cautela? La questione più importante è legata alla profondità delle relazioni bilaterali italo-egiziane. Lasciare all’onda dell’emotività le tematiche di maggior rilevanza geopolitica o diplomatica rischia di generare confusione nella governance degli affari internazionali. E dunque occorre rifiutare sia il cinismo che l’eccessiva accondiscenza quando in gioco c’è il rapporto tra affari internazionali tra Stati sovrani e questioni che attengono a singoli individui. Hanno forse aiutato gli strappi unilaterali di Roberto Fico, che ha sospeso i rapporti tra la Camera dei Deputati e l’omologa istituzione egiziana, a risolvere il caso Regeni? Affermare che la risposta sia sì sarebbe, ora come ora, quantomeno dubbio. La fuga in avanti sulla cittadinanza a Zaki può, al contempo, aiutare Roma a trattare diplomaticamente un suo ritorno nel capoluogo emiliano? La Sereni giustamente ricorda che si entra in un territorio incerto.
L’Italia deve ricordare che l’Egitto è Paese molto attento alla tutela della sua sovranità. E uno strappo unilaterale pregiudicherebbe forse irrimediabilmente rapporti consolidati che fino a pochi giorni fa Roma non ha mancato di alimentare, dando l’idea di contraddittorietà. Di pochi giorni fa è infatti la notizia della partenza della seconda fregata Fremm realizzata da Fincantieri e destinata proprio alla Marina del Cairo. La questione Zaki non ha impedito la vendita della nave, né lo ha fatto il caso Regeni: un irrigidimento immediato di Roma sul tema darebbe probabilmente al Cairo motivo di dubitare di Roma e potrebbe contribuire a generare rappresaglie passabili di abbattersi sullo stesso studente dell’Unibo.
La realtà dei fatti è che l’Italia dovrà in futuro fare i conti con la necessità di approcciare gli affari internazionali in un’ottica di realismo e politica di potenza. Solo così si potrà veramente tutelare la vita e la sicurezza dei propri connazionali all’estero, o delle persone legate al nostro Paese, e andare oltre una visione mercantile o “dirittoumanista” della politica globale. Entrambi gli approcci scontano limiti sostanziali di fronte alla realtà. L’intersezione tra l’affare Zaki e il caso Fremm lo dimostra: per Roma la prospettiva di cacciarsi in un nuovo vicolo cieco per ragioni di principio è elevata.