Le esplosioni che collegano Siria e Libano sono tante. Tra queste ce n’è una che, forse, ci parla ancora. Il 14 febbraio del 2005 sembra un San Valentino come tanti e l’ex premier Rafiq Hariri sta passando Beirut a bordo della propria macchina. All’improvviso, però, un ordigno lo fa saltare in aria insieme ad altre 21 persone. Succede tutto in un attimo. Il boato, le lamiere delle auto che si contorcono insieme ai corpi, l’odore di carne bruciata e la polvere che si alza nel cielo. Chi ha ucciso Hariri? È stato Hezbollah? Oppure c’è la mano dei servizi segreti di Damasco? Molti seguono questa pista, senza però arrivare alla pistola fumante. Avremmo dovuto conoscere la verità, almeno quella dei tribunali, domani. Ma tutto è stato rimandato perché la sentenza che vede coinvolti quattro presunti membri di Hezbollah è stata rinviata al prossimo 18 agosto in seguito all’esplosione avvenuta nel porto di Beirut.

Cosa ci facevano oltre 2500 tonnellate di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut? Le vicende che hanno determinato l’arrivo del cargo Rhosus e del suo carico sono ormai note. Nel novembre del 2013, una nave russa battente bandiera moldava, la Rhosus appunto, arriva nel Paese dei cedri con problemi tecnici. Attracca e, dopo alcuni controlli, vengono trovati grandi quantitativi di nitrato d’ammonio. La nave viene messa sotto sequestro e il personale rimandato a casa. Si scarica il nitrato d’ammonio e finisce così nell’hangar 12 del porto. Dimenticato. O quasi. Il 26 giugno del 2014, infatti, il direttore della dogana, Shafik Merhi, invia una lettera ai suoi superiori per chiedere informazioni. Sa che quella al porto è una bomba che può esplodere da un momento all’altro. Nessuno però gli risponde e così Merhi è costretto a fare altre cinque segnalazioni, ottenendo in cambio soltanto silenzio. Anche perché nessuno sa cosa fare con quel materiale che può essere usato tanto come fertilizzante quanto come esplosivo. C’è chi pensa di esportarlo, chi di venderlo a privati e infine chi vorrebbe consegnarlo all’esercito. Nel dubbio, però, tutto rimane fermo.

Accanto a queste mancanze organizzative, però, potrebbe esserci un’altra pista, che ci porta in Siria. Secondo quanto appreso da fonti qualificate di InsideOver, infatti, il nitrato d’ammonio potrebbe esser stato lasciato nel porto di Beirut per aiutare i ribelli che in questi anni hanno combattuto contro Bashar al Assad. Gruppi sunniti radicali, spesso legati al jihad. “Il nitrato, probabilmente era per loro, anni fa…”, ci fanno sapere.

Guido Olimpio sottolinea oggi su Il Corriere di oggi: “Da decenni il nitrato, ‘impastato’ con altri prodotti, si è tramutato in un’arma povera quanto letale. I filmati diffusi dalle fazioni siriane hanno mostrato effetti impressionanti, in particolare quando gli insorti hanno scavato tunnel sotto postazioni nemiche, li hanno riempiti di miscele simili per poi farli detonare sollevando montagne di terra. Un doppio impiego, terroristico e sul campo di battaglia”. Vale dunque la pena chiedersi: il nitrato d’ammonio usato in Siria era lo stesso che veniva conservato nel porto di Beirut?

Nei pressi del porto, ma non non nella zona interessata dall’esplosione, ci sarebbe stato anche un deposito di armi. Ma di chi? Fonti di InsideOver negano la presenza di Hezbollah e suggeriscono l’ipotesi che si tratterebbe di un arsenale sequestrato ai gruppi sunniti radicali.

Ci troviamo davanti a un’ipotesi, si capisce. Come ce ne sono tante attorno all’esplosione di martedì scorso. C’è chi punta il dito contro Israele (che avrebbe così punito il Partito di Dio) e chi contro Hezbollah (che avrebbe cercato in questo modo di creare un diversivo in vista della sentenza sulla morte di Hariri che ci sarebbe dovuta esser domani). Una pista, quella siriana, che si aggiunge ai tanti misteri di questo paese martoriato.





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