Costretti a rilasciare false dichiarazioni dopo aver subito terribili torture ed intimidazioni: è questo il destino dei  Rohingya che cadono nelle mani delle guardie di frontiera mentre oltrepassano il confine tra Myanmar, più noto come Birmania, e Bangladesh , nazione vicina dove cercano una vita distante dalla persecuzione.

Secondo quanto riportato da Human Rights Watch, che è riuscita ad intervistare un gruppo di sei uomini Rohingya (alcuni dei quali adolescenti), i “fuggitivi” sono stati costretti a rilasciare false dichiarazioni alla stampa birmana dopo il rilascio alla durissima detenzione, dichiarando di essere “tornati volontariamente” ed essere stati trattati “bene” dalle autorità birmane poste al controllo del confine con il Bangladesh. In realtà, secondo l’organizzazione per i diritti umanitari, il gruppo era letteralmente “terrorizzato” dopo essere stato oggetto di ripetute torture da parte degli agenti delBorder Guard Force (Bgp) che li hanno catturati mentre erano intenti a oltrepassare il confine. La paura li spingerà ad organizzare una seconda fuga per tornare in Bangladesh.

Percosse, bruciature con sigarette e oggetti incandescenti, scosse elettriche e tagli; questo il trattamento riservato dalle guardie di confine birmane ai Rohingya sorpresi a passare il confine. Inoltre la privazione del cibo. Le sevizie sono state portate avanti per diversi giorni in una base delle guardie di confine. L’obiettivo: quello di estorcere ai sei uomini la confessione di essere membri del gruppo d’insurrezione armata islamista Arakan Rohingya Salvation Army e di aver preso parte ai recenti attacchi contro la Birmania. A questo sono seguite altre due settimane di reclusione, in un campo di detenzione, dove agenti dell’intelligence militare birmano – il Sa Ya Pa – hanno continuato con interrogatori, percosse e intimidazione per farsi rilasciare una “confessione” prima del rilascio.

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“All’inizio mi hanno preso a calci sul petto e sull’inguine, poi hanno usato scosse elettriche per farmi dire che ero un membro dell’Arsa, ma non potevano farmi dichiarare una cosa simile”, ha spiegato uno dei fuggitivi. Un secondo uomo ha raccontato di essere stato “impiccato a testa in giù e picchiato ripetutamente” per ottenere lo stesso risultato. “Hanno bruciato un sacchetto di plastica e lasciato che la plastica calda colasse sul mio corpo. Hanno anche preso una sbarra di ferro riscaldata e mi hanno marchiato le gambe, spento sigarette accese sulla pelle, versato cera calda da una candela, inciso il corpo con una lama, e mi ha colpito con bacchette e bastoni”, ha raccontato un terzo uomo. Nessuno ha dichiarato di essere membro del gruppo armato islamista. Durante il tempo di detenzione gli uomini sono stati messi a processo due volte, sempre senza un avvocato difensore. A nulla è valso mostrare alle autorità giudicanti i segni delle torture e delle percosse.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Onu sulla consistenza di un genocidio perpetrato in Birmania sulla minoranza musulmana dei Rohingya,  questo 4% della popolazione è vittima silenziosa di una terribile persecuzione religiosa, accusato di essere “straniero” incline a ribellarsi alle discriminazioni razziali regolarmente adottate dalla popolazione birmana di religioneTheravāda. La maggioranza buddhista theravāda, circa il 90% della popolazione, e la maggioranza etnica Bamar che a sua volta la compone, ha sempre detenuto il potere – sia ai tempi della dittatura militare di stampo socialista, sia sotto l’odierno regime semi-democratico che oggi amministra il Paese. L’indagine condotta dalla Nazioni Uniti ha prodotto una documentazione di oltre 400 pagine che dimostra impressionati violazioni dei diritti umani a tutti i livelli. Attualmente i leader militari birmani  – che reclamano l’intromissione nelle Nazioni Unite – sono indagati dall’organizzazione intergovernativa con l’accusa di genocidio e di aver compiuto crimini di guerra contro la minoranza musulmana dei rohingya. Il silenzio riguardo la faccenda mantenuto dal premio nobel birmana Aung San Suu Kyiè stato ritenuto da molti «assordante».





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