La notte tra il 20 ed il 21 febbraio 2020 l’Italia è ancora un Paese normale: l’opinione pubblica dibatte sulle ultime vicende politiche, milioni di persone si preparano ai giorni del Carnevale, i tifosi italiani sono invece concentrati sull’inedita sfida scudetto tra Juventus e Lazio. E sempre da un punto di vista sportivo, in Lombardia tutti gli occhi sono puntati sull’exploit dell’Atalanta che in Champions mercoledì 19 febbraio ha clamorosamente battuto il Valencia agli ottavi di finale.

Proprio in Lombardia, in quella maledetta notte, all’ospedale di Codogno un giovane di 38 anni si è presentato al pronto soccorso in gravi condizioni: il paziente aveva difficoltà respiratorie, la tac ha stabilito la presenza di una strana polmonite. Da qui i primi sospetti: i sintomi potrebbero essere riconducibili al nuovo coronavirus diffusosi in Cina tra dicembre e gennaio. Il tampone poi, ha tolto ogni dubbio: il giovane è stato infettato dal virus Sars Cov2, il quale dà vita alla malattia denominata Covid-19. L’Italia, il 21 febbraio 2020, si è risvegliata con l’incubo dell’epidemia e non è stata più la stessa.

I primi focolai italiani del coronavirus

Per la verità quello riguardante l’uomo di 38 anni ricoverato a Codogno, non è stato il primo caso italiano di Covid-19. Infatti, sul nostro territorio nazionale in quel momento risultavano ricoverate tre persone per i sintomi di questa malattia: si trattava, in particolare, di una coppia di turisti cinesi e di un ragazzo italiano evacuato a febbraio da Wuhan, città cinese epicentro dell’epidemia. Tutti e tre erano in cura presso lo Spallanzani di Roma: la coppia cinese, in particolare, è stata rintracciata con i sintomi del coronavirus il 30 gennaio. Il giorno successivo, il governo italiano ha decretato ufficialmente lo stato d’emergenza sanitaria per sei mesi. Tuttavia, nel Paese il problema relativo al nuovo coronavirus non è stato molto avvertito nelle settimane seguenti: al di là di una generica attenzione alle notizie che arrivavano dalla Cina da parte della popolazione, in Italia in pochi credevano nella possibilità di cadere in balia di una possibile pandemia. Il governo dal canto suo, ha preso alcune misure volte a prevenire possibili contagi dalla Cina: dal blocco dei voli con il Paese asiatico, fino ai controlli negli aeroporti, si è cercato di evitare che il virus potesse giungere in Italia. Analoghe misure sono state prese in Europa, anche se molti governi del vecchio continente hanno deciso di non chiudere del tutto il traffico aereo con la Cina, ma di irrigidire i controlli negli aeroporti. E questo, soprattutto, al fine di evitare che cittadini cinesi potessero giungere tramite voli presi facendo scalo in altri Paesi.

Il 21 febbraio l’Italia è stata colta di sorpresa dal virus: il paziente di Codogno è stato il primo infettato ufficialmente all’interno del nostro territorio, palesando dunque l’esistenza di un focolaio italiano indipendente da quello cinese. Subito dopo la positività rintracciata nel “Paziente 1“, sono scattati i controlli alle persone a lui più vicine: la moglie ed un amico sono risultati anch’essi contagiati, poco dopo nell’area della provincia di Lodi sono stati trovati altri soggetti infettati dal coronavirus. Si è quindi subito capito che la portata dell’infezione era più importante del previsto. Quel giorno stesso, si è cercato di capire chi potesse essere il “Paziente 0“: gli occhi sono stati puntati su un amico del trentottenne del lodigiano, di ritorno di recente da Shanghai. Tuttavia, gli esami non hanno riscontrato la presenza del virus su questo soggetto. A quel punto, si è intuito che il Paziente 1 ha contratto la malattia da altre persone e che il Sars Cov2 era nell’area lombarda già da tempo. Alla fine del 21 febbraio 2020, l’Italia ha contato più di venti contagiati ed una prima vittima: si tratta di un uomo di 78 anni della provincia di Padova. E proprio in Veneto è stato rintracciato, nelle ore successive al ricovero del paziente di Codogno, un secondo focolaio nell’area di Vò Euganeo.

L’istituzione delle prime zone rosse

Il Paese è stato colto di sorpresa dal rapido evolversi della situazione. Nell’area dei primi contagi, la gente ha iniziato ad avere paura, specialmente perché le varie autorità sanitarie segnalavano sempre più casi, ora dopo ora. A bordo di due treni ad alta velocità, si è generato il panico per la presenza di persone provenienti dal lodigiano che presentavano sintomi da coronavirus. Gli allarmi erano per fortuna infondati, ma il blocco della circolazione ha dato l’idea della paura riscontrata in Lombardia ed in Veneto. Nel week end successivo alla scoperta del primo contagiato, a Milano ed in molte aree del nord Italia si è generato non poco panico, con la popolazione che si è riversata nei supermercati per fare scorte di cibo e generi di prima necessità per via dello spauracchio di dover rimanere rinchiusa a casa.

Domenica 23 febbraio da Roma sono arrivate le prime decisioni da parte del governo: in particolare, è stata istituita una cosiddetta “zona rossa” che comprendeva i comuni della bassa lodigiana e di Vò Euganeo. In totale, sono state 11 le amministrazioni coinvolte da questa misura: Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia e Terranova dei Passerini in provincia di Lodi, Vò Euganeo in provincia di Padova. All’interno di queste aree è stato imposto il divieto di entrare e di uscire per due settimane, così come è stata stabilita la chiusura di tutti i locali, i negozi, lo stop a tutte le manifestazioni pubbliche ed alle attività sportive. Soltanto farmacie ed attività considerate essenziali hanno avuto il via libera per continuare a svolgere il proprio lavoro. Ai margini della zona rossa, forze dell’ordine e dell’esercito hanno iniziato il 24 febbraio a presidiare le vie di accesso ai paesi sopra indicati con mirati posti di blocco.

La prima settimana di emergenza

Le misure restrittive però, non sono state limitate unicamente alle zone rosse. In tutta la Lombardia, così come in Veneto, in Emilia Romagna ed in Piemonte, le regioni si sono mosse per prevedere limitazioni e restrizioni in grado di rallentare la diffusione del virus. Dalla chiusura delle scuole, passando per una serrata anticipata dei bar e dei negozi, il nord Italia ha iniziato in questa maniera a convivere con la presenza ingombrante del virus. Ma nei primi giorni di emergenza, ad emergere è stata soprattutto la confusione, innescata probabilmente dalla poca consapevolezza del fenomeno che ci si è trovati improvvisamente a fronteggiare. In particolare, a risaltare è stata la mancanza di organicità nelle decisioni, con buona parte delle restrizioni avviate su iniziativa delle singole regioni. A questo, occorre aggiungere anche molte pressioni affinché, subito dopo la prima settimana, si ritornasse alla vita di tutti i giorni.

Amministrazioni locali, regioni ed esponenti anche di rango nazionale, più o meno in modo trasversale hanno lanciato iniziative affinché potesse passare il messaggio che il nord Italia fosse una zona sicura, dove si poteva da subito tornare senza problemi a lavoro. Nonostante alcuni divieti e diverse chiusure, quali quelle dei bar dopo le 18:00 e dei monumenti principali, tra cui il Duomo di Milano, non sono mai terminati assembramenti e la vita sociale delle persone non ha subito grossi cambiamenti.

L’immagine dell’Italia come “paese untore”

Tuttavia, i casi registrati sono cresciuti giorno dopo giorno: a destare scalpore, sia all’interno del nostro Paese che all’estero, è stato il fatto che in una settimana l’Italia nel numero dei conteggi complessivi dei contagiati ha scavalcato Paesi quali Hong Kong, Singapore ed altri del sud est asiatico più vicini alla Cina. La stessa Corea del Sud, altra nazione pesantemente coinvolta dall’emergenza coronavirus, è stata ben presto raggiunta dall’Italia. Il nostro Paese quindi è risultato essere quello più colpito in ambito europeo. Quest’ultima circostanza ha fatto sì che diversi governi prendessero decisioni rigide nei confronti degli italiani: stop ai voli, chiusura delle frontiere e quarantene obbligatorie hanno iniziato a riguardare da subito i nostri concittadini all’estero. Diversi italiani in almeno 14 differenti Paesi hanno rappresentato il “Paziente 1” del Covid-19. Una pubblicità francese in onda su Canal+, ironizzava su un cameriere italiano che dava vita alla “corona pizza”. Un segno di come l’Italia, da questo momento in poi, è stato visto come Paese untore.

10 marzo 2020: scatta il lockdown

Nonostante generici inviti alla prudenza, il virus nel nord Italia specialmente ha iniziato a progredire ed a fare sempre più paura. A fine febbraio, in tutto il Paese si contavano più di mille casi e 29 morti: l’epidemia, nel frattempo, si è allargata anche al centro – sud con diversi focolai innescati da soggetti provenienti dalle regioni settentrionali. Se nelle zone rosse intanto si è iniziato ad assistere, nei primi giorni di marzo, ad una diminuzione dei contagi, è il resto della Lombardia a destare sempre più perplessità: un’impennata di casi è stata infatti riscontrata tra le province di Bergamo e Brescia, allo stesso tempo sono apparsi quasi subito in affanno gli ospedali delle province di Cremona e della stessa Lodi. La regione Lombardia è entrata così in un incubo destinato a durare diverse settimane, con decine di pazienti ricoverati in gravi condizioni ogni giorno e con i reparti di terapia intensiva con i posti letto quasi tutti occupati. Una situazione riscontrabile anche in altre aree, a partire dalla provincia di Padova in Veneto e dalle province di Piacenza e Parma in Emilia Romagna. Qui, in particolare, i primi focolai appaiono strettamente connessi a quelli del lodigiano. Inoltre, a partire dai primi di marzo un’impennata del numero dei contagi ha coinvolto anche la Romagna e, in particolare, la provincia di Rimini. Poco più a sud, nello stesso arco temporale, è stata notata una crescita dei casi accertati all’interno della provincia di Pesaro.

Alla luce dell’espansione del virus in diverse aree del territorio nazionale, ed in special modo in quelle settentrionali, il governo il 1 marzo ha varato un nuovo Dpcm, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’obiettivo delle nuove normative era quello di recepire le varie misure approvate precedentemente, prorogarle temporalmente e creare un pacchetto organico di provvedimenti valevole a livello nazionale. Tuttavia, il rapido evolversi degli eventi ha reso necessario il 4 marzo un nuovo Dpcm, con misure ancora più stringenti alcune delle quali valevoli per tutto il Paese: tra queste, spiccano la chiusura delle scuole e delle università in tutte le regioni e lo svolgimento degli eventi sportivi a porte rigorosamente chiuse. In questo frangente inoltre, le autorità sanitarie hanno iniziato a sottolineare l’importanza per tutta la popolazione di iniziare ad attuare un certo distanziamento sociale, anche nelle regioni meno coinvolte dall’epidemia. Ancora una volta però, la velocità del virus ha superato quella dell’efficacia delle misure precedentemente approvate. Sabato 7 marzo si è resa necessaria, alla luce di un’impennata dei casi nelle province già maggiormente colpite, l’attuazione di un nuovo decreto per delimitare nuove e più estese zone rosse.

Le normative in questione, in particolare, consideravano blindata l’intera Lombardia, al pari delle province emiliane di Piacenza, Parma, Modena, Reggio Emilia, così come in Romagna anche quella di Rimini, mentre in Piemonte ad essere considerate zona rossa erano le province di Asti, Alessandria, Novara, Verbania e Vercelli. Chiuse anche le province di Padova, Venezia e Treviso in Veneto, così come quella di Pesaro – Urbino nelle Marche. Poche ore prima dell’emanazione del decreto però, una fuga di notizie ed un’anticipazione della chiusura dei territori sopra citati ha causato panico nella popolazione interessata. A Milano soprattutto, diversi tra studenti e lavoratori originari del sud Italia hanno preso d’assalto i treni diretti verso il meridione. Si calcola che migliaia di persone in quella notte hanno provato, spesso riuscendoci, a prendere il primo mezzo utile per tornare a casa. La falla nel sistema comunicativo è stata ben evidente ed ha causato forti timori nel sud Italia, lì dove l’emergenza coronavirus in quel momento appariva ancora meno accentuata.

Contestualmente, il governo ha dovuto iniziare a fare i conti anche con diverse rivolte nelle carceri di tutta la penisola, innescate dalle restrizioni imposte per l’emergenza sanitaria. Più di 30 case circondariali sono state interessate da proteste molto violente, culminate anche con scontri con le forze dell’ordine. Tra le carceri di Modena e Rieti, le più interessate dalle rivolte, sono morti almeno 12 detenuti. Anche questi episodi hanno contribuito ad acuire il senso di disorientamento in tutto il Paese, con gli italiani ritrovatisi improvvisamente in una nazione in balia di un virus non controllato e di carceri in fiamme. I casi di Covid-19 aumentavano esponenzialmente, al pari del numero delle vittime, contate oramai nell’ordine di diverse decine al giorno. Alla luce di questi fatti, il 9 marzo con un discorso al Paese, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha ufficialmente proclamato il “lockdown“: ogni attività non essenziale è stata sospesa in tutto il territorio nazionale, così come sono state interrotte tutte le manifestazioni sportive, compreso il campionato di calcio di Serie A. Il nuovo Dpcm è stato chiamato “IoRestoaCasa“: per uscire dalle proprie abitazioni, da adesso in poi occorre esibire un’autocertificazione che attesti motivi stringenti quali lavoro e salute. Per l’Italia dunque, in quel momento è iniziata la fase di totale isolamento. Le misure previste il 9 marzo, sono state poi inasprite da un nuovo Dpcm dell’11 marzo.

Gli italiani sul balcone

La vita nel Paese è stata di fatto spenta: chiusi i bar, chiusi i ristoranti, chiusi i locali, chiuse le palestre, così come i cinema, i teatri ed ogni luogo in cui è possibile creare assembramenti. Anche gli uffici hanno subito forti ridimensionamenti: in tanti hanno scelto la via dello smart working, ossia il lavoro da casa. Un modo per evitare ulteriori spostamenti e dunque avere altre possibilità di contagio da coronavirus. Durante i primi giorni di reclusione casalinga forzata, sono stati organizzati un po’ in tutta Italia diversi flash mob che hanno coinvolto molti cittadini. Dalla musica diffusa dai balconi, fino all’esposizione della bandiera nazionale ed all’esecuzione dell’inno: sono state diverse le iniziative in tal senso, volte a rendere meno pesante il clima e l’umore tra la stessa popolazione. Sulle strade sempre più deserte intanto, le forze dell’ordine hanno messo in campo diversi uomini per controllare la situazione e monitorare chi usciva da casa. In assenza di fondati motivi per allontanarsi dal proprio domicilio, è stata prevista una denuncia penale oltre che una sanzione amministrativa. I controlli hanno riguardato anche quelle attività commerciali che non si sono attenute alle indicazioni date dalle norme governative.

Il dramma della Lombardia

Intanto però, soprattutto in una regione italiana la situazione già dai primi di marzo ha iniziato a diventare insostenibile. Dopo il lodigiano e la provincia di Cremona, l’epicentro dell’epidemia si è spostato in altre aree della Lombardia: in particolare, nel bergamasco e nel bresciano diverse comunità hanno iniziato a contare prima una crescita repentina del numero dei contagiati, successivamente è comunicata una macabra conta dei morti. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, un picco dei contagi ha riguardato soprattutto alcune comunità della provincia di Bergamo, a partire dai comuni di Alzano e Nembro, cuori pulsanti dell’economia e dell’industria locale. Prima del lockdown si era parlato di una possibile istituzione di una specifica zona rossa anche da queste parti, sul modello di quella istituita il 23 febbraio nel lodigiano. Tuttavia nessuna iniziativa in tal senso è stata intrapresa, anche forse per l’insorgere del blocco nazionale che da lì a breve sarebbe stato imposto. Un’altra area fortemente colpita dai contagi nello stesso arco temporale, è quella del bresciano: comunità quali Orzinovi, hanno iniziato a fare i conti con il costante rumore delle sirene delle ambulanze di sottofondo, oltre che con un vertiginoso aumento del numero dei morti.

Secondo alcune ricostruzioni dei virologi dell’istituto Sacco di Milano, alcune fiere organizzate a febbraio ed i continui contatti economici e sociali tra le province di Bergamo, Brescia e Lodi, avrebbero avuto la funzione di veri e propri detonatori dell’infezione in questi territori ed in Lombardia nel suo complesso. Sotto accusa anche l’apertura di diverse piste da scii, soprattutto nella bergamasca. Nonostante i primi divieti ed i primi decreti tra febbraio e marzo, in tanti si sono infatti riversati negli impianti sciistici della zona, contribuendo a far diffondere il virus in diversi paesi a ridosso delle più importanti vallate della provincia. Alcuni studiosi hanno anche avanzato l’ipotesi di un altro evento che avrebbe potuto contribuire alla repentina diffusione del virus: il match di Champions League tra Atalanta e Valencia del 19 febbraio, svoltosi presso lo stadio San Siro di Milano. La presenza di più di 45mila tifosi provenienti da tutta la provincia di Bergamo quella sera, avrebbe di fatto attivato un vasto meccanismo epidemico responsabile in parte del disastro dei giorni successivi.

Queste ipotesi comunque, confermano che il virus in Lombardia era in circolazione già da prima del 21 febbraio 2020, giorno in cui è stato registrato il primo ricovero di un paziente affetto da Covid-19 a Codogno. A riprova di ciò, anche la presenza di un’anomala impennata di ricoveri per polmonite riscontrata nel lodigiano nei giorni antecedenti la scoperta del Paziente 1. Verosimilmente, è l’ipotesi più accreditata sempre dagli studiosi del Sacco di Milano, il virus era in circolazione in Lombardia già da gennaio. Forse, secondo una prima ricostruzione, è stato portato da alcuni soggetti provenienti dalla Germania e, in particolare, dalla Baviera. Una regione con forti contatti e legami economici con la Lombardia, da cui dunque sarebbe arrivato il virus. L’innesto di focolai non venuti a galla e l’assenza quindi di ogni forma di contenimento e distanziamento sociale, ha fatto sì che il coronavirus dilagasse senza controllo in tutta la Lombardia, dove fino al 21 febbraio la vita è andata avanti normalmente. Dopo evidenti segnali di ulteriori impennate nella curva dei contagi, in Lombardia come nel resto del Paese, il 22 marzo con un nuovo Dpcm il governo ha imposto ulteriori restrizioni, chiudendo anche le fabbriche impegnate nei settori ritenuti non essenziali.

La situazione in Lombardia è apparsa devastante: al 30 marzo, la regione conta 6.818 morti, molti dei quali tra le province di Bergamo e Brescia. In queste zone gli ospedali durante tutto l’ultimo mese sono stati messi a dura prova, specialmente per quanto attinente ai ricoveri in terapia intensiva. L’immagine più significativa di questo periodo, è data dal trasporto fuori città di numerose bare all’interno di alcune camionette dell’esercito lungo le strade di Bergamo. In tutta la provincia infatti, il numero di vittime è stato così elevato da mettere in difficoltà le autorità anche per il reperimento di luoghi appositi per la sepoltura. Ha fatto il giro del mondo anche la foto scattata all’ospedale di Cremona, la quale ritrae un’infermiera stremata dopo turni massacranti di lavoro ed addormentata con la testa poggiata su una scrivania.

Il dramma degli anziani

Ma ovviamente l’emergenza coronavirus non ha attanagliato soltanto la Lombardia. In totale, fino al 30 marzo, l’Italia ha avuto registrati 101.793 casi di contagio, piangendo qualcosa come 11.591 morti. Più della metà in Lombardia per l’appunto, mentre l’altra regione fortemente colpita è l’Emilia Romagna: qui sono stati due i focolai principali avviati. Oltre a quello delle province di Piacenza e Parma, collegato ai casi del lodigiano, è da registrare quello riscontrato nella provincia di Rimini, diventata nel frattempo zona rossa. Ad influire in quest’ultimo caso, potrebbe essere stata la fiera del gelato svolta a fine gennaio. In Veneto, dopo un’iniziale impennata dei contagi, si è assistito ad un progressivo livellamento della curva dei casi riscontrati. Qui le autorità sanitarie locali hanno applicato una strategia volta ad una maggiore mappatura della popolazione, effettuando diversi tamponi per individuare gli asintomatici. Particolarmente colpite dal virus, oltre alla provincia di Padova, anche quelle di Treviso, Venezia e Verona. Nel corso delle settimane, la situazione è diventata complicata anche in Piemonte, regione che al 30 marzo contava 749 morti. In raffronto al numero degli abitanti però, il territorio maggiormente colpito a marzo è stato quello marchigiano, con il prima citato focolaio della provincia di Pesaro: in tutta la regione, in particolare, sono morte 417 persone. Secondo alcune ipotesi, a portare da queste parti il virus, sarebbero state le final eight della coppa Italia di basket, disputate a Pesaro a fine febbraio e che hanno richiamato la presenza di 32.000 persone, tra cui centinaia di tifosi provenienti dalla Lombardia.

Ad emergere in tutti questi casi, è stato il dramma della popolazione più anziana. Secondo i calcoli dell’Iss, l’Istituto Superiore di Sanità, più del 95% dei morti ha un’eta che va dai 60 anni in su. Questo per molte comunità ha voluto significare la perdita di quasi tutta la popolazione più anziana, che a livello sociale si è tradotto nel dramma di veder sparire la memoria storica di numerosi tra paesi e cittadine. Quello che più ha impressionato sotto il profilo emotivo, è stata la solitudine con la quale i pazienti più gravi dovevano affrontare le ultime ore della loro vita: molti anziani, sono venuti a mancare senza poter salutare alcun caro e senza il conforto dei familiari. A loro è stato più volte rivolto il pensiero anche di Papa Francesco, il quale venerdì 27 marzo ha tenuto una celebrazione in una piazza San Pietro deserta, da cui ha impartito un’inedita benedizione urbe et orbi.

La situazione nel centro – sud

Già una settimana dopo il primo caso di Codogno, nel meridione sono stati riscontrati i primi contagiati. In Puglia così come in Campania, si è trattato di persone arrivate pochi giorni prima dalla Lombardia e dal Veneto. Stessa situazione in Sicilia, dove il 24 febbraio una turista bergamasca è risultata positiva a Palermo ed è stata ricoverata presso il capoluogo siciliano. Il sud, in generale, nelle prime due settimane di emergenza non ha visto svilupparsi importanti focolai epidemici, tuttavia l’apprensione in queste regioni è diventata subito molto alta per due ragioni: un minore sviluppo della rete ospedaliera sul territorio, così come l’afflusso massiccio di studenti e lavoratori residenti nel nord Italia a partire dai primi di marzo.

A mitigare la situazione, il fatto che la prima crescita delle curve epidemiologiche è arrivata quando già era attivo il lockdown nazionale. Questo ha garantito un maggiore controllo dei focolai che, nel corso delle settimane, sono stati notati nelle varie regioni. In Campania, così come in provincia di Latina, passando per quella di Potenza, sono state istituite alcune zone rosse per via della presenza di focolai locali individuati all’interno di alcune comunità, come ad esempio nella città laziale di Fondi. Stesso discorso in Sicilia, dove in quattro comuni la Regione ha istituito altrettante zone rosse. Qui inoltre, si è proceduto ad un progressivo isolamento del territorio, specie dopo i vari afflussi di persone dal nord: a partire dal 20 marzo, viene sospesa l’attività negli aeroporti eccezion fatta per due voli giornalieri tra Roma e Palermo e tra Roma e Catania. Inoltre, sono stati sospesi i treni intercity notte e sono stati ridotti al minimo gli spostamenti tra Messina e Reggio Calabria. Al 31 marzo, anche se il numero dei contagi è salito anche al sud Italia, la situazione appare più tranquilla.

In tutte le varie regioni meridionali inoltre, sono stati predisposti piani straordinari volti ad organizzare l’offerta ospedaliera in funzione dell’emergenza. In generale, nel sud Italia è stato evitato l’effetto sorpresa del virus ed è forse questo ad aver contribuito a limitare i danni.

4 maggio 2020: l’inizio della fase 2

Il 26 aprile 2020 il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha annunciato un nuovo Dpcm volto a disciplinare la fase successiva a quella della chiusura totale fino a quel momento in vigore. Le nuove norme, valevoli a partire dal 4 maggio, hanno previsto un calendario di graduali riaperture delle varie attività grazie al rallentamento della diffusione dell’epidemia.

In particolare, la cosiddetta fase 2 avviata il primo lunedì del mese di maggio ha dato il via libera agli spostamenti anche non essenziali all’interno del proprio comune, purché però finalizzati alla visita dei cosiddetti “congiunti”. L’uso di questo termine anche da parte dello stesso capo del governo, ha generato non poca confusione: per congiunti si potevano intendere esclusivamente i parenti stretti, così come però anche amici o persone con cui si intrattenevano rapporti sentimentali. Ad ogni modo, dal 4 maggio è stato possibile spostarsi dalle proprie abitazioni anche per via della riapertura dei parchi pubblici, del servizio d’asporto per le attività di ristorazione e della ripresa di diverse attività produttive con il commercio all’ingrosso.

Nel Dpcm del 26 aprile, è stata fissata la data del 18 maggio per una nuova fase di riaperture: in quel lunedì hanno potuto riprendere a lavorare i ristoranti ed i bar, così come i centri estetici ed i parrucchieri. Via libera anche per mostre e luoghi culturali all’aperto, nonché i luoghi di culto anche se sono rimaste forti limitazioni per gli ingressi in occasione delle cerimonie religiose. Il 25 maggio è stata la volta di palestre e luoghi in cui si praticano le attività sportive.

La riapertura dei confini regionali

Anche se ufficialmente come data che ha segnato l’inizio della cosiddetta Fase 2 viene generalmente indicata quella del 4 maggio, in realtà un primo significativo ritorno alla normalità si è avuto soltanto il 18 maggio con la riapertura di bar, negozi e ristoranti. Una circostanza quest’ultima che ha fatto cadere l’obbligatorietà delle autocertificazioni per gli spostamenti all’interno del proprio comune. Sempre nella seconda metà di maggio, l’esibizione delle autocertificazioni è venuta a mancare per gli spostamenti all’interno della propria regione di residenza. L’ultimo ostacolo quindi per la totale libertà di movimento nel nostro territorio nazionale, riguardava proprio il divieto di spostarsi da una regione all’altra se non per motivi specifici ed irrinunciabili.

A partire dal 3 giugno, è stato dato il via libera alla circolazione al di fuori dei propri confini regionali senza l’uso dell’autocertificazione. Quest’ultimo strumento non è quindi stato più contemplato tra le misure anti Covid, se non per piccoli casi eccezionali. Al netto della ritrovata libertà negli spostamenti, sono comunque rimaste in vigore tutte le varie misure relative al distanziamento sociale ed ai divieti di assembramenti, nonché sull’obbligatorietà dell’uso delle mascherine in luoghi chiusi.

Altri passi verso il ritorno alla normalità sono stati decisi nei giorni successivi. In particolare, l’11 giugno un nuovo Dpcm ha dato il via alla cosiddetta “Fase 3”, con misure che dal 15 giugno in poi hanno consentito l’apertura di teatri, cinema, sale da giochi, sale bingo, nonché di centri termali e stabilimenti balneari seppur con numeri contingentati e con l’obbligatorietà del rispetto delle misure anti contagio. Sempre nel mese di giugno, è potuto riprendere tra le altre cose anche il campionato di calcio di Serie A, seppur a porte chiuse.

Il calo dei contagi e il “ritorno” alla vita

 Sono stati numeri alla stessa stregua dei bollettini da guerra quelli che l’Italia ha contato durante il periodo clou del coronavirus e, quando il dato  dei contagi è notevolmente scemato in estate, in tutta la Nazione è ritornata la voglia di riprendere quella fetta di vita che durante la primavera è rimasta in standby. Alla data del 24 luglio l’Italia ha contato 245.032 casi di contagi in tutto il territorio nazionale, con almeno 35.000 morti. Numeri importanti, per i quali è stato sempre chiesto di non abbassare la guardia ma che, in qualche modo,  hanno consentito agli italiani di ritornare alla propria vita seguendo le regole del “distanziamento sociale”.

Mascherine e distanza di sicurezza i principi cardini per ritornare a lavoro, per riaprire le attività e per condividere momenti sociali e di svago. In questo modo gli italiani sono gradualmente ritornati a riprendere i ritmi di sempre. Le notizie di cronaca hanno messo in evidenza come ad essere più ligi alle forme di prevenzione siano stati più che altro gli adulti e gli anziani. I giovani sono stati i più “ottimisti” ritornando a frequentare luoghi di aggregazione. Locali al mare o in città sempre pieni di persone e, seppur in luoghi aperti, impossibile rispettare il distanziamento. Ma anche l’utilizzo delle mascherine in questi contesti è venuto meno: impossibile consumare cibo e bevande con dispositivi di protezione individuale.

L’arrivo dei migranti che ha innalzato la percentuale di contagi

L’Italia, quella del Sud, in particolare, oltre a dovere fare i conti con l’emergenza sanitaria caratterizzata dal coronavirus, si è trovata a dover fronteggiare un’altra emergenza, ovvero quella del fenomeno migratorio. Dopo uno stop degli arrivi dei migranti nel mese di marzo, ad aprile, nonostante vi fosse ancora il lockdown e i porti erano stati dichiarati non sicuri, il flusso degli arrivi è ripreso a ripartire senza conoscere mai sosta raggiungendo il clou in estate.

Lampedusa in particolare la zona che ha fatto registrare più arrivi. Ma anche il territorio del Sulcis, in Sardegna e poi, in Calabria, ad essere colpita dagli sbarchi, è stata tutta la costa ionica. In Sicilia, i sindaci dei territori maggiormente colpiti dal fenomeno migratorio con in testa quello di Lampedusa, hanno chiesto l’istituzione di una nave per consentire ai migranti di trascorrervi il periodo di quarantena senza avere contatti con la popolazione. Due le navi messe a disposizione dal governo per il territorio siciliano: la Rubattino a Palermo e la Moby Zazà a Porto Empedocle. Poi è accaduto quello che si temeva: tra i migranti che arrivavano è iniziata la conta di quelli positivi al coronavirus. All’interno della Moby Zazà è stata istituita la zona rossa con 28 migranti positivi. Ma altri casi di positività al virus sono stati riscontrati ovunque  sulla terraferma,ed in particolar modo  nei vari centri di accoglienza dal sud al nord Italia. Questo ha inciso sulla crescita della curva dei contagi  scatenando paura fra gli italiani e, di conseguenza,  numerose polemiche sulla gestione del fenomeno migratorio da parte del governo.

Alla redazione di questo articolo ha collaborato Sofia Dinolfo 





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