Terapia e farmaci sono i due principali punti di discussione su cui si è concentrato il dibattito riguardante le più efficaci misure di contrasto alla pandemia di coronavirus che è imperversata negli ultimi mesi. Come affrontare nel migliore dei modi l’avanzamento clinico del contagio da Sars-Cov-2? Con l’ausilio di quali strumentazioni (ventilazione polmonare o strumenti meno invasivi)? Quali farmaci si stanno dimostrando più efficaci? Dopo milioni di casi e centinaia di migliaia di decessi in tutto il mondo, diverse sperimentazioni e tentativi emergenziali il mondo della ricerca medica e scientifica inizia a delineare con precisione il merito di tali questioni.

I limiti della ventilazione polmonare

Inizialmente, i sintomi dell’infezione da coronavirus erano principalmente associati con l’insorgere nei pazienti di forme violente e invasive di polmoniti intersiziali, che hanno fatto individuare nell’ausilio della ventilazione polmonare nei reparti di terapia intensiva la via maestra per la risoluzione clinica. Non a caso i macchinari per garantire agli ospedali il massimo numero possibile di posti letto assistiti dalla ventilazione meccanica a pressione positiva continua (C-Pap) sono diventati un vero e proprio asset strategico e hanno guidato ampi programmi di riconversione industriale.

Tuttavia, col passare delle settimane l’eziologia e l’analisi della malattia ha portato a constatare che in diversi contesti di infezione da coronavirus la polmonite non è insorta come sintomo principale, ma bensì come conseguenza di un malessere diffuso dell’organismo dovuto alla formazione di tromboembolie venosa generalizzate, soprattutto (ma non solo) polmonari. In questo contesto, la priorità clinica sarebbe stata rappresentata dalla risoluzione del problema del trombo, piuttosto che dal contrasto alla polomonite.

Giacomo Grasselli, Responsabile di Unità Operativa Semplice e Professore Associato di Anestesia e Rianimazione presso il Policlinico di Milano, ha pubblicato sul Journal of American Medical Association un importante studio in cui definisce l’attenta selezione dei pazienti da mandare in terapia intensiva, e non trattabili con le normali e meno invasive tecniche di rianimazione, come una priorità fondamentale per salvare vite: “se è vero che la ventilazione meccanica salva la vita”, ha fatto notare, “è altrettanto vero che può anche peggiorare il danno polmonare e quindi è importante sapere in che modo usare il ventilatore e come ventilare il paziente in modo adeguato”.

Il nodo farmaci

Associato al tema delle terapie più intense e invasive per il contrasto al Covid-19 vi è quello dei farmaci maggiormente utili nel contrasto all’avanzamento del virus. Chiaramente la fase emergenziale ha portato medici e operatori sanitari in tutto il mondo a tentare diverse strade che se da un lato posson aver avuto successo su singoli casi dall’altro richiedono studi approfonditi prima di esser elevati a standard generale.

L’agenzia medica europea Ema si prepara a seguire le autorità statunitensi autorizzando l’uso sistematico del Remdesvir, il farmaco anti-ebola che nelle fasi iniziali si è dimostrato capace di inibire la replicazione sistematica del Sars-Cov-2.

Manca, allo stato attuale delle cose, un’altra terapia capace di acquisire portata sistemica. La terapia col plasma su cui si è tanto discusso utilizza il plasma dei pazienti guariti e in Italia ha avuto un’applicazione su scala locale a Pavia e Mantova: efficace su casi poco gravi o in fase iniziale, è difficile per la natura della “materia prima” necessaria da strutturare come terapia su larga scala.

L’Organizzazione mondiale della sanità è stata invece molto ambigua sull’idrossiclorochina, il principio attivo anti-malarico utilizzato molto spesso in fase clinica contro il Covid-19. Uno studio di The Lancet che ne criticava l’impiego ha visto tre dei quattro medici autori ritirare di recente le firme. Donald Trump dagli Usa si è fatto primo interprete del suo massiccio utilizzo, mentre l’India, primo produttore, strategicamente, in attesa di testarne l’utilità accumula scorte.

Cuba il governo e le autorità sanitarie sono riuscite a contenere con efficacia la malattia (poco più di 2mila casi e solo 83 decessi) con un uso originale e complementare di numerosi dei farmaci in discussione, a cui si aggiungono cure basate su un interferone di matrice nazionale. “Ai  casi sospetti di aver contratto il virus viene somministrato Interferone alfa 2b, Oseltamivir — inibitore selettivo di neuraminidasi del virus dell’influenza – e Azitromicina”, ha dichiarato a Pressenza la giornalista cubana Jessica Dominguez Delgado. “I pazienti ad alto rischio, inoltre, vengono trattati con Kalestra – farmaco antiretrovirale utilizzato contro l’HIV – e Clorochina – di comprovata efficacia contro la malaria. In più, viene utilizzato il plasma dei pazienti guariti da Covid-19”. Tecnicamente l’interferone è farmaco che integra la carenza di interferone causata dal contagio e rinvigorisce il sistema immunitario.

Meccanismi di respirazione assistita che minimizzino il rischio di espansione dei trombi e farmaci che rafforzano il sistema immunitario si sono rivelati, in linea di massima, efficaci: ma la ricerca scientifica deve ancora arrivare a risposte definitive sulla migliore cura per il Covid-19. Il metodo scientifico vive di esperimenti, e questo vale anche per una disciplina complessa come la medicina, ove nessuna terapia per malattie sconosciute garantisce, in partenza, una certezza di successo: ma perlomeno, dopo mesi di pandemia, ora il terreno di gioco è ben definito, e le terapie e le cure di maggiore interesse su cui gli studi dovranno proseguire sono state isolate. Saranno il decorso futuro del virus e gli studi annessi a fornire nuove evidenze alla ricerca.