Non è ancora chiaro in che modo i Paesi dell’Africa siano intenzionati a combattere il Coronavirus, se seguiranno la strada battuta dall’Unione europea o se cercheranno soluzioni maggiormente autoctone. Tuttavia, un Continente nero in grado di applicare tutte le direttive è semplicemente un’utopia: l’acqua scarseggia, i disinfettanti sono quasi del tutto assenti e le già precarie condizioni di salute della popolazione non sono che il preludio di quella che rischia di essere ricordata come una strage. E nonostante qualche Paese – come il Sudafrica di Cyril Ramaphosa – stia cercando di applicare al massimo delle proprie possibilità le direttive dell’Oms, tutti i nodi stanno venendo al pettine.

La sanità africana non è all’altezza

Con un sistema sanitario che fa acqua da tutte le parti – eccezion fatta, parzialmente, per il prima citato Sudafrica – gli ospedali africani non sono nella condizione di poter accogliere tutta la mole di pazienti che necessitano di cure più sofistica. Basti pensare che in molti Paese – quali l’Etiopia, l’Eritrea e l’Uganda – i posti letto in terapia intensiva sono ben lontani dal centinaio di unità, con una delle più basse percentuali mondiali in rapporto alla popolazione effettiva.

Inoltre, alla bassa diffusione di strutture idonee vanno aggiunte anche le carenze di strumentazioni – che spaziano dalle più basilari mascherine ai ventilatori polmonari. E in questa situazione, persino i medici incorrono in grandi rischi, con una capacità di sostituzione in caso di infezione ancora più ridotta che nel resto del Mondo. In un contesto già difficile, queste carenze rischiano dunque di peggiorare ulteriormente la situazione.

Quali sono i Paesi più esposti?

Secondo quanto analizzato per il Pentagono da una società di studi americana e riportata dalla testata giornalistica italiana Avvenire, i possibili focolai di più difficile controllo saranno quelli che si svilupperanno in Sudan del Sud, Congo-Kinshasa, Nigeria e Sudan. Ciò, in virtù delle già estreme situazioni di malnutrizione e povertà provocate dalla guerra civile, oltre alle difficoltà legate al controllo del territorio ed al rispetto del distanziamento sociale in pubblico.

Al secondo posto, compaiono invece quei Paesi che “soffrono” della più alta densità di popolazione nelle megalopoli urbane. La città di Lagos in Nigeria, Addis Abeba in Etiopia ed Il Cairo in Egitto sono delle vere e proprie bombe ad orologeria, che non hanno nulla da “invidiare” alle favelas sudamericane ed alle baraccopoli dell’Asia meridionale: con l’aggravante però di sistemi sanitari ancora più fragili.

Inoltre, i Paesi che sono già vessati da altre malattie debellate o quasi in Occidente – come la Tbc – o che creano gravi danni all’apparato immunitario – come l’Aids – sono maggiormente esposti ai rischi sanitari. E questo scenario rischia davvero di essere il preludio perfetto per una strage.

L’unica speranza è data dall’età media

Come ben evidenziato dall’età media delle vittime europee ed occidentali – ed in parte è stata appunto la “fortuna” della Cina – il virus colpisce principalmente le persone già nella fase avanzata della propria vita. I giovani a livello mondiale si sono rivelati molto più resistenti ed essendo spesso asintomatici hanno limitato – ma non azzerato – le percentuali di contagio che in caso contrario sarebbero state ancora più elevate.

Con un’età media che nella maggioranza dei Paesi non raggiunge i 30 anni di età, l’unica ancora di salvezza è dettata proprio dalla popolazione giovanile, che se in buona parte risulterà resistente al patogeno renderà di meno difficile gestione il lavoro dell’apparato sanitario. Tuttavia, anche su questo punto le incognite sono ancora molte e sono legate al peggior grado di salute fisica rispetto alle controparti occidentali.

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