Alle 10 del mattino del 18 maggio 1980 i militari aggrediscono studenti e professori ammassati in segno di protesta davanti all’ingresso della Chonnam National University di Gwangju. In questa cittĂ sudcoreana situata a quasi 300 chilometri da Seul, e oggi abitata da circa 1,5 milioni di abitanti, sta montando la rabbia contro la dittatura di Chun Doo Hwan.
Il suo governo si era instaurato nel settembre 1980 in seguito a un colpo di stato, il secondo nel giro di un anno all’interno di un Paese ormai in balia degli eventi. Per la cronaca, il primo golpe risaliva all’ottobre 1979, quando l’allora presidente Park Chung Hee fu assassinato da Kim Haegyu, all’epoca direttore della Korean Central Agency.
Un bagno di sangue
Erano anni travagliati, quelli, per la Corea del Sud, sia dal punto di vista economico che politico. L’ascesa al potere di Chun provocò la controreazione della popolazione. Nel marzo del 1980 le manifestazioni cittadine riempirono le strade e si espansero a macchia d’olio in tutto il Paese.
Studenti e professori chiedevano riforme democratiche, la ricostituzione delle unioni studentesche, l’abolizione della legge marziale (instaurata delle voci su una presunta infiltrazione dei nordcoreani in Corea del Sud) e la riabilitazione dei piĂą basilari diritti, rimossi da una dittatura durissima. La risposta del governo non si fece attendere. Chun ordinò una violentissima repressione, rinominata operazione ”Lavish Holiday”.
Il massacro di Gwangju
Siamo arrivati al preludio a quello che passerĂ alla storia come il ”massacro di Gwangju”. La tensione sale in tutto il Paese ma è a Gwangju che il clima si fa particolarmente incandescente. Davanti all’universitĂ locale, chiusa per ordine del governo, i militari provocarono un bagno di sangue. Fu Chun in persona a ordinare la repressione.
Iniziarono proprio in quella mattina del 18 maggio 1980 i dieci giorni che cambiarono per sempre la storia della Corea del Sud. L’intensitĂ delle proteste aumenta di pari passo con la repressione dell’esercito. Gwangju fu addirittura isolata. A un certo punto alcuni cittadini provarono a negoziare una tregua con i soldati, ma le trattative non portarono a niente. Il 27 maggio, al termine di quasi dieci giorni di violenze, l’esercito riprese il controllo dei luoghi della cittĂ occupati dai manifestanti.

Nello stesso giorno i carri armati entrarono a Gwangju e ripresero il controllo dell’Ufficio provinciale. Fu la resa dei conti: altri scontri, altre violenze, altro sangue, altri morti, soprattutto tra gli studenti. Ancora oggi non conosciamo il numero esatto di vittime. Le fonti ufficiali di quel periodo parlano di quasi 200 vite spezzate ma c’è chi sostiene che le vittime furono tra le mille e le duemila unitĂ . Sotto la dittatura di Chun, che rimarrĂ in carica fino al 1988, questi eventi furono presentati ai sudcoreani come una rivolta comunista.
Sacrificio e democrazia
Una volta che in Corea del Sud fu instaurato un regime democratico, quel massacro venne riconosciuto per ciò che era: una repressione di un movimento cittadino che chiedeva diritti e libertĂ per l’intero popolo.
Il presidente in carica durante il massacro di Gwangju, Chun Doo Hwan, fu condannato a morte nel 1997 anche se, in seguito, fu graziato. Nel 2002 fu creato un cimitero nazionale per tutte le vittime del massacro, anche se molti corpi non furono mai ritrovati.
Il 18 maggio viene dichiarata giornata nazionale di commemorazione. Se oggi la Corea del Sud può essere definita una democrazia lo deve anche a tutti i protagonisti che presero parte alle proteste di Gwangju. La ”Tienanmen coreana” ha avuto il suo lieto fine, anche se il prezzo pagato è stato altissimo.