Il 2003 viene ricordato per diversi eventi, tanto di cronaca quanto di altro genere. Ad esempio, questo è stato l’anno della guerra degli Usa contro Saddam Hussein, con il conflitto iniziato il 19 marzo 2003 e con le statue del rais iracheno abbattute a Baghdad il 9 aprile successivo. Il 28 maggio invece, tutti gli italiani erano incollati davanti allo schermo per seguire la prima finale di Champions tra due squadre di Serie A, che all’Old Trafford di Manchester vedeva contrapposte Milan e Juventus. Eppure, anche nel 2003 si è andati molto vicini a quanto oggi sta caratterizzando il 2020: una pandemia causata da coronavirus. Nei primi mesi di quell’anno è apparso un incubo che per diverso tempo ha attanagliato i timori anche degli italiani: quello spauracchio si è materializzato con il nome di Sars. Tutto il mondo ha tremato: dall’estremo oriente fino alle Americhe, passando per l’Europa, la popolazione mondiale ha vissuto con lo spettro di ritrovarsi dinnanzi alla prima grande infezione del nuovo secolo. Così però non è stato ed il termine Sars è riemerso solo di recente, quando quei maledetti incubi del 2003 si sono materializzati nei mesi scorsi. 

Cos’è la Sars

Con questo termine è stata identificata una malattia che colpisce soprattutto l’apparato respiratorio. Infatti, Sars è acronimo di Severe acute respiratory syndrome, ossia sindrome respiratoria acuta grave ed indica i casi più gravi di polmonite atipica riscontrata nei pazienti infettati da un particolare coronavirus. Quest’ultimo è stato scoperto nel 2003 ed è stato denominato Sars-Cov: la diffusione del morbo ha provocato un’epidemia che, come detto in precedenza, nel giro di pochi mesi ha fatto precipitare il mondo nel timore di subire una delle più gravi pandemie.

Il virus in questione fa parte della famiglia dei coronavirus, denominati così in quanto al microscopio l’aspetto del loro corpo centrale si presenta proprio con la forma di una corona. L’origine è ancora oggi incerta, anche se nel corso degli anni ha preso sempre più quota l’ipotesi che il Sars-Cov abbia fatto il salto dall’animale all’uomo dai pipistrelli. Nel 2017, dunque 14 anni dopo la fine dell’epidemia, ricercatori cinesi hanno rintracciato questo coronavirus in alcuni pipistrelli appartenenti a delle specie comunemente note come “ferri di cavallo”. Sempre secondo lo studio cinese, a fare da vettori intermediari per la trasmissione del Sars-Cov sarebbero stati gli zibetti. Anche per questo motivo, è possibile rintracciare diverse somiglianze tra il Sars-Cov ed il Sars-Cov2, ossia il coronavirus apparso nel 2019 e che nel 2020 è stato responsabile dell’avvio della pandemia attualmente in corso.

L’origine cinese dell’epidemia di Sars del 2003

E proprio come 17 anni dopo, i primi allarmi relativi al nuovo coronavirus sono arrivati dalla Cina. A cambiare, rispetto all’epidemia del 2019-2020, è la provincia origine del primo focolaio infettivo: se il Sars-Cov2 si è iniziato a diffondere infatti dall’Hubei e, in particolare, dalla metropoli di Wuhan, il virus Sars-Cov ha avuto come origine invece la provincia del Gaungdong. Infatti, nel novembre del 2002 un agricoltore è stato ricoverato per una grave forma di polmonite presso il primo ospedale della città di Foshan. L’uomo è morto poco dopo il suo approdo in ospedale, tuttavia in un primo momento non è stata effettuata alcuna diagnosi. Non si capiva il motivo di una così grave forma di polmonite, da qui i primi sospetti della presenza di un nuovo virus. Il governo di Pechino, informato dalle autorità provinciali, non ha però fatto scattare alcun allarme.

Una prima notizia della presenza di un possibile focolaio di un nuovo coronavirus, si è avuta il 27 novembre 2002. In particolare, il Global Outbreak and Alert Response Network dell’Oms ha segnalato quel giorno alcuni report provenienti dalla Cina, in cui per l’appunto si parlava di un importante aumento di casi di polmonite atipica, segno di possibili focolai attivi di un nuovo virus in alcune province del Paese asiatico. Per questo la stessa Oms ha chiesto, tra il 5 e l’11 dicembre 2002, chiarimenti alle autorità di Pechino. Il governo cinese però ha inizialmente dichiarato di avere la situazione sotto controllo, non riconoscendo subito ufficialmente la presenza di un’epidemia causata da un virus fino ad allora sconosciuto. Soltanto il 21 gennaio 2003, in base alle poche informazioni trapelate, si è potuto redarre un primo report in inglese. In esso si parlava di una sindrome respiratoria acuta, individuata con l’acronimo di Sars. Soltanto il 10 febbraio 2003 le autorità di Pechino hanno confermato la presenza del nuovo coronavirus, riferendo al contempo che il picco nel Guandong era già stato superato con 305 casi accertati e 5 decessi. Poco dopo le cifre sono state riviste al rialzo: nella provincia da dove è partito il primo focolaio di Sars, i contagiati sono stati almeno 806 ed i morti 34.

L’episodio dell’hotel Metropolitan di Hong Kong

Quando però la Cina ha iniziato ad ammettere la presenza di un nuovo virus, i focolai avevano iniziato ad espandersi anche oltre la provincia del Guandong. Nella vicina Hong Kong, a febbraio l’incubo Sars si è materializzato per via dello sviluppo dell’infezione all’interno di un albergo. In particolare, un medico del Guandong ha alloggiato nella stanza 911 dell’Hotel Metropolitan, assieme alla moglie. Quando è arrivato ad Hong Kong il medico, di nome Liu Jianlun, stava già male. Probabilmente era rimasto contagiato in uno degli ospedali della sua provincia in cui lavorava. Il 22 febbraio si è quindi recato presso uno dei nosocomi di Hong Kong e per via di una crisi respiratoria è stato posto in terapia intensiva. Il medico è in seguito deceduto il 4 marzo. Durante il suo soggiorno nella metropoli cinese, Liu Jianlun potrebbe aver infettato diverse persone. Da quel momento in poi infatti, le autorità di Hong Kong hanno iniziato a riscontrare molti casi di polmonite atipica, riconducibili al nuovo virus la cui presenza era oramai stata conclamata.

All’interno dell’hotel Metropolitan di Hong Kong alloggiava tra gli altri anche Kwan Sui-Chu, una donna di origini sudcoreane residente a Toronto. Una volta tornata in Canada il 23 febbraio 2003, ha iniziato ad avvertire malesseri e problemi respiratori. Ricoverata in ospedale, la paziente è deceduta il 13 marzo 2003. Successivamente, i test effettuati hanno confermato la presenza del nuovo virus e la donna è quindi risultata la Paziente 1 in Canada. Da allora, il Paese nordamericano è entrato nell’incubo dell’epidemia, con diversi casi accertati e con diversi pazienti ricoverati in quelle settimane nei vari ospedali di Toronto.

Al Metropolitan di Hong Kong, ha alloggiato a febbraio anche Johnny Chen. Cittadino sino – americano, l’uomo il 26 febbraio ha raggiunto per lavoro Hanoi, capitale del Vietnam. Avvertiti i primi malesseri, l’uomo è stato ricoverato all’interno dell’ospedale francese della città vietnamita. Johnny Chen per la gravità della situazione, è stato trasferito in terapia intensiva ad Hong Kong, lì dove poi è deceduto il 13 marzo. Il suo caso però, è stato determinante per l’individuazione della nuova malattia.

L’intuito di Carlo Urbani

Tra l’equipe medica che ha soccorso Johnny Chen ad Hanoi, vi era anche il medico italiano Carlo Urbani. Da anni impegnato in Vietnam e profondo conoscitore della realtà locale, Urbani ha trascorso buona parte della sua carriera anche ad insegnare alle popolazioni dei Paesi più poveri come combattere le infezioni. Nel suo curriculum, figura anche la presenza del suo ruolo di presidente dell’associazione Medici Senza Frontiere.

Urbani, nel momento del ricovero di Chen, ha intuito di trovarsi difronte ad una nuova malattia provocata da un agente patogeno fino ad allora sconosciuto. Di Sars, come detto in precedenza, si è iniziato a parlare internazionalmente a gennaio ed il governo cinese ha ammesso la presenza di un nuovo virus il 10 febbraio, dunque ancora non tutti erano preparati alla possibilità di ritrovarsi dinnanzi a questa nuova e grave situazione. Carlo Urbani ha prima lanciato l’allarme all’Oms, successivamente ha convinto le autorità vietnamite ad adottare speciali protocolli per evitare la diffusione dell’epidemia. Misure quali il distanziamento e l’isolamento delle persone infettate, sono quindi state approvate dal locale governo. Da quel momento in poi, in caso di sospetti di Sars si utilizzerà a livello internazionale il protocollo ideato da Urbani.

Carlo Urbani l’11 marzo, quando l’Oms si preparava a decretare lo stato d’allerta, era in volo da Hanoi a Bangkok. All’interno dell’aereo, il medico italiano ha avvertito problemi respiratori intuendo dunque di aver contratto anch’egli il nuovo virus. A bordo del mezzo Urbani è riuscito a contattare i suoi colleghi a Bangkok, predisponendo tutte le misure necessarie per il soccorso e l’immediato isolamento. Il medico che per primo al mondo ha lanciato l’allarme per il nuovo virus, è purtroppo deceduto in seguito il 29 marzo. Da allora in poi, il protocollo da lui ideato è diventato quello applicato sempre in caso di epidemia.

12 marzo 2003: l’Oms lancia l’allerta globale

A seguito dei primi casi riscontrati in Vietnam, ad Hong Kong ed in Canada, così come di quanto dichiarato dalle autorità cinesi circa la situazione nel Guandong, il 12 marzo 2003 l’Oms ha dichiarato lo stato d’allerta generale a livello globale. In particolare, l’organizzazione ha valutato con apprensione le notizie riguardanti le prime morti riscontrate per via della malattia, la quale ha avuto come filo comune nei casi fino ad allora noti la presenza di gravi difficoltà respiratorie dovute ad una polmonite atipica.

Da quel momento in poi, sono stati sconsigliati viaggi verso le zone interessate mentre laboratori di tutto il mondo hanno iniziato a studiare il nuovo virus e la nuova malattia da esso generato. Il pericolo, in quel marzo del 2003, era soprattutto legato alla possibilità che l’epidemia partita dal Guandong potesse trasformarsi in una vera e propria pandemia.

L’attenzione mediatica verso la Sars

L’allerta lanciata dall’Oms ha indubbiamente acceso i riflettori sul nuovo virus. E questo nonostante il concomitante inizio della guerra in Iraq. Televisioni di tutto il mondo hanno iniziato a parlare della presenza della Sars, evidenziando come essa fosse oramai diffusa in diversi Paesi. Le morti dei Pazienti 1 del Vietnam e del Canada così come, poco dopo, del medico italiano Carlo Urbani, hanno poi dato l’impressione di un’elevata letalità. Secondo i primi dati arrivati nel mese di marzo del 2003, la mortalità avrebbe riguardato almeno il 10% delle persone colpite dal virus. Una percentuale di gran lunga superiore rispetto alle malattie influenzali stagionali.

Sotto il profilo mediatico, una svolta la si è avuta il 9 aprile 2003. Quel giorno infatti, sono accaduti due fatti che hanno, da quel momento in poi, determinato una costante attenzione verso il nuovo virus. Da un lato infatti, le truppe americane hanno conquistato Baghdad e di conseguenza la guerra in Iraq ha iniziato ad interessare sempre meno. Dall’altro lato, un mormone americano docente dell’Università di Shenzhen, James Earl Salisbury, è morto a causa della Sars presso l’ospedale di Hong Kong. Un evento quest’ultimo che ha scosso l’opinione pubblica negli Usa e portato diversi network ad occuparsi del caso. Il governo cinese, dopo il decesso di Salisbury, ha iniziato anche a svelare maggiori dettagli sulle dinamiche dell’epidemia.

A contribuire anche ad una maggiore visibilità mediatica del virus, ha contribuito anche l’epidemia sviluppatasi a Toronto. Ha infatti destato scalpore la rapida diffusione della Sars nella metropoli canadese, lì dove il sistema sanitario è sempre stato descritto come tra i più efficienti a livello globale.

16 aprile 2003: identificato il virus Sars

Su spinta anche della pressione mediatica, in tutto il mondo è partita la corsa alle ricerche sul nuovo virus. E questo sia per produrre un vaccino e sia per arrivare a comprendere la natura del coronavirus. Dopo diverse ricerche effettuate in numerosi laboratori di diversi Paesi, il 16 aprile l’Oms ha ufficialmente dato un nome al nuovo virus. Essendo quest’ultimo ritenuto responsabile della Sars, il morbo è stato chiamato virus Sars-Cov.

La Sars in Italia

Il nostro Paese ha vissuto sotto il profilo mediatico l’attenzione verso lo sviluppo del nuovo virus riscontrato in Cina. E questo anche in considerazione del fatto che il primo medico a lanciare l’allarme è stato Carlo Urbani: il suo decesso ha contribuito a far destare maggiore allarme all’interno dell’opinione pubblica italiana. La paura nella popolazione è arrivata soprattutto a metà aprile, quando una donna a causa di complicazioni respiratorie è deceduta a Napoli dopo essere ritornata dalla Thailandia. Nonostante quest’ultimo Paese non fosse iscritto tra quelli più a rischio, l’episodio ha generato timori e panico in tutto lo stivale. Successivamente però, è stato dimostrato che la vittima è venuta a mancare per altri motivi.

Complessivamente, l’Italia ha avuto 4 casi di Sars. Il Paziente 1 è stato un imprenditore rientrato nel nostro Paese il 14 marzo. Italiano era anche il Paziente 2, mentre gli altri due contagiati erano cinesi rientrati dal loro Paese alcune settimane dopo l’esplosione dell’epidemia. Nessuno dei 4 è risultato seriamente ammalato e bisognoso di specifiche cure. Dunque, l’Italia è stata soltanto sfiorata dall’emergenza sanitaria globale. Per via però degli allarmi dell’Oms e dell’attenzione mediatica, anche il nostro governo, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi e con Girolamo Sirchia quale ministro della Sanità, ha nominato una task force insediatasi il 17 aprile 2003.

Le misure prese in Italia contro la Sars

In generale è stata l’intera Europa a risultare poco colpita dal virus. Il maggior numero di casi si è registrato in Germania, con 9 persone contagiate. In Francia invece si è contata l’unica vittima di Sars in tutto il vecchio continente. In tutti i Paesi europei sono state intraprese diverse misure, tra cui il filtraggio aeroportuale con controlli accurati per coloro che arrivavano dalle nazioni considerate più a rischio. In Italia, come si legge nel rapporto finale dell’Istituto Superiore di Sanità, sono stati quattro gli obiettivi portati a termine volti a prevenire il contagio: “1) identificare e isolare immediatamente i casi di SARS, sospetti o probabili al momento del loro arrivo in Italia (filtro aeroportuale); 2) identificare e isolare immediatamente i casi di SARS, sospetti o probabili che si manifestano in soggetti provenienti da aree affette nei 10 giorni successivi al loro arrivo in Italia – si legge nel documento – 3) porre sotto sorveglianza i contatti dei casi di SARS; 4) fornire indicazioni per la prevenzione e controllo della SARS in ambito ospedaliero”.

Non sono stati quindi bloccati i voli da e per la Cina, così come anche per gli altri Paesi a rischio. Al contrario, si è proceduto a verificare lo stato di salute di coloro che arrivavano. Questo è stato importante, ha sottolineato l’Iss, per via del “rinforzo informativo fornito nell’atto dello screening clinico all’arrivo”. Un punto quindi visto tra quelli essenziali per la prevenzione del virus in Italia: “Il nostro Paese- si legge ancora nella relazione dell’Iss – ha dato grande importanza al filtro aeroportuale, consistente in uno screening clinico dei passeggeri in arrivo da aree infette, informazioni sulla possibilità di comparsa di sintomi, identificazione e sorveglianza sanitaria dei passeggeri dei voli sui quali erano presenti persone affette da SARS”. Una valutazione positiva è stata fatta anche in riferimento alle procedure di isolamento delle persone risultate infette: “Le procedure di isolamento adottate nei centri clinici che hanno ricoverato casi probabili di SARS sembrano aver funzionato – hanno scritto i vertici dell’Iss – non essendosi verificati casi secondari di trasmissione dell’infezione ad operatori sanitari”. Nella relazione finale, l’Istituto Superiore di Sanità non ha sottovalutato il fattore fortuna: “L’Italia – si legge nel documento – come gli altri Paesi europei è stata innanzitutto fortunata. A differenza di quanto accaduto in Canada, non sono arrivati casi prima della fatidica data dell’allarme globale”.

La fine dell’epidemia

Aprile e maggio sono stati i mesi in cui il virus è stato maggiormente sotto l’attenzione mediatica, tanto da oscurare ed offuscare lo stesso immediato dopoguerra iracheno. In tutto il mondo si aspettava, da un momento all’altro, lo scoppio di una pandemia. In Cina il Partito Comunista ha iniziato la rimozione di tutti i dirigenti locali e nazionali ritenuti responsabili dei ritardi della comunicazione e di una cattiva gestione dell’emergenza sanitaria. Nel frattempo sia all’interno della Cina continentale, che ad Hong Kong e Taiwan sono state prese misure quali la chiusura delle scuole e di alcune fabbriche. Stessa situazione anche in Vietnam e nelle zone del Canada più colpite dal virus. Tuttavia, è proprio tra fine aprile e maggio che le curve epidemiologiche hanno iniziato a virare verso il basso: in tutti i Paesi raggiunti da diversi casi di Sars, il numero dei contagi è apparso drasticamente diminuito.

L’Oms il 28 aprile ha dichiarato il Vietnam primo Paese ad aver arrestato l’epidemia del nuovo virus. Il 24 maggio Hong Kong ha vissuto il suo primo giorno dopo mesi senza la registrazione di nuovi contagi. Sempre a fine maggio anche la provincia cinese focolaio del virus, ossia il Guandong, ha fatto registrare il più basso numero di contagiati dall’inizio dell’anno. Il 31 maggio Singapore, altro Paese colpito, è stato rimosso dall’elenco delle aree più a rischio. In Canada nella città di Toronto i focolai sono apparsi oramai ristretti e controllati a partire da metà giugno. Con la rimozione, avvenuta il 5 luglio 2003, di Taiwan tra le aree più pericolose, l’Oms ha dichiarato cessato l’allarme a livello globale. La Sars era di fatto scomparsa, anche se la stessa organizzazione ammoniva circa la comparsa di una seconda ondata in autunno. Alcuni casi, dopo l’estate, sono apparsi sempre nel Guandong a partire da dicembre, anche se con numeri non in grado di destare ulteriori allarmi. Il 18 maggio 2004, l’Oms ha dichiarato la Cina completamente libera dal virus Sars. Il morbo era stato di fatto debellato ancor prima del vaccino.

Il bilancio finale dell’epidemia

Dal novembre 2002 al maggio 2004, sono stati complessivamente riscontrati 8.096 casi di Sars. Di questi, 5.327 soltanto in Cina. Il Paese asiatico è stato anche quello dove sono stati registrati più morti: 349 dei 774 complessivi a livello globale. Dati a cui bisogna aggiungere i 1.755 casi di Sars riscontrati ad Hong Kong e le 299 vittime registrate sempre all’interno dell’ex colonia britannica. Taiwan invece ha dovuto fare i conti con 346 contagiati e 73 vittime. Al di fuori dell’estremo oriente, è stato il Canada il Paese più colpito con le 256 persone contagiate nell’area di Toronto e, tra queste, le vittime sono state 43. Il Vietnam ha pianto 5 morti sui 63 contagiati: il governo di Hanoi ha pubblicamente tributato al medico italiano Carlo Urbani il merito di aver evitato, grazie all’allarme lanciato, ha evitato una possibile strage all’interno del Paese asiatico. Il tasso di mortalità della Sars, nel bilancio finale, è risultato del 9.6%.





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